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- un iter autorizzativo è da considerarsi viziato, e quindi il titolo edilizio non correttamente concluso, se vi è stata la dimissione del Direttore Lavori e se il cantiere è proseguito senza che il committente ne abbia nominato un altro in sostituzione;
- anche in presenza del vizio di cui sopra, si potrebbe ritenere comunque legittima la costruzione eseguita fino al momento delle dimissioni, in quanto tecnicamente sarebbe priva di titolo "solo" la parte di costruzione realizzata senza direttore lavori - e, dunque, diventa davvero essenziale poter ricostruire l'esatto momento in cui le dimissioni sono avvenute. per riflesso, è importante, quando ci si dimette da tale importantissimo ruolo, testimoniare lo stato di avanzamento del cantiere, anche per tutelare la propria posizione e quanto effettivamente svolto sotto la propria direzione;
- una volta individuata la porzione illegittima, sarebbe doveroso valutare l'opportunità del rilascio di un accertamento di conformità, ed il Comune dovrebbe attivarsi fattivamente a tale scopo, ovviamente rimanendo nel solco della sua posizione amministrativa. Si individua in sostanza un ruolo "attivo" e non passivo dell'amministrazione di fronte alla gestione dei propri fascicoli: quello del comune non dovrebbe essere solo un ruolo di vigilanza e di sanzione, ma anche di scambio di informazioni e di apertura verso la cittadinanza anche valutando situazioni complesse poste al limite del seminato delle leggi.
Al riguardo giova evidenziare che, secondo consolidata giurisprudenza, che il Collegio condivide, il cambio di destinazione d’uso di un immobile tra categorie non omogenee è riconducibile agli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 3, comma 1, lettera d), del DPR n. 380 del 2001, non potendo essi qualificarsi né come nuove costruzioni, né come attività di manutenzione straordinaria, né tanto meno come attività di restauro o risanamento conservativo (cfr. Tar Lazio, II sez. stralcio, 19 giugno 2023, n. 2023); le considerazioni che precedono risultano confermate dall’ormai consolidata giurisprudenza amministrativa a rigore della quale il cambio di destinazione d’uso da abitazione ad ufficio, anche se eseguito senza opere, soggiace ormai al permesso di costruire, e ciò al pari della ristrutturazione edilizia c.d. “pesante”
Sul punto la giurisprudenza, anche di questo Tribunale, ha condivisibilmente affermato che ove la sollecitazione del terzo all’attivazione dei poteri di vigilanza sulla SCIA edilizia venga effettuata – come nella specie - in epoca successiva alla scadenza del termine di 30 giorni assegnato per la realizzazione dei controlli per così dire “ordinari” (art. 19 commi 3 e 6 bis L. n. 241/90), l’amministrazione è, comunque, tenuta a riscontrare l’istanza del privato e, quindi, ad azionare i poteri di vigilanza edilizia nonché quelli repressivo sanzionatori, previa verifica dell’eventuale esistenza di tutti i presupposti all’uopo previsti dall’art. 21 nonies l. n. 241/90 (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II quater, 21/10/2020, n. 10702).
Ed invero, giusta il combinato disposto di cui ai commi 3, 4 e 6 bis dell’art. 19 l. n. 241/90, a fronte di una S.C.I.A./D.I.A. i poteri di controllo, inibizione ed eventuale repressione dell’attività segnalata si atteggiano in maniera differente a seconda della tempestività (60 giorni, che diventano 30 in materia edilizia, dalla presentazione della dichiarazione) o meno degli stessi rispetto all’epoca della presentazione della dichiarazione/segnalazione.
TAR Lazio sez. 2 bis n°214/2021 - è una sentenza che interviene su una vicenda su cui lo stesso tribunale si era già espresso con sentenza n°12052/2018: un gruppo di cittadini deposita due distinte istanze edilizie per il medesimo intervento (il che appare oggettivamente ambiguo ma nelle sentenze questo tema della doppia istanza non viene trattato anche perché non è oggetto di contestazione da parte del Comune), una presso il municipio territorialmente competente (che inibisce l'istanza in tempi rapidi ma comunque perde il primo ricorso del 2018, ma su cui pende ricorso al Consiglio di Stato) e l'altra presso il Dipartimento PAU, per autorizzare opere di mutamento di destinazione d'uso in città consolidata, da destinazione non residenziale a residenziale (intervento che nel comune è soggetto ad intervento edilizio indiretto: ne ho parlato qui), ai sensi della L.R. 7/17. Il TAR non entra nel merito di tutte le doglianze del Dipartimento PAU (che intima di non eseguire i lavori ma a distanza di molto tempo), ma dichiara illegittimo il modo in cui il comune procede all'inibizione ribadendo il concetto secondo cui trascorsi i primi trenta giorni, il Comune può solamente procedere con l'annullamento in autotutela, seguendone la relativa procedura, essendo decorso il termine entro cui può declarare l'inefficacia del titolo e intimare a non eseguire i lavori. Dietro a questa sentenza c'è un tema molto ampio ma che non ha senso sviluppare in questo post, ed è quello della opportunità di "aggirare" il limite del piano regolatore ai mutamenti d'uso verso destinazioni residenziali usufruendo della LRL 7/17 di rigenerazione urbana.
Sempre con riguardo ai mutamenti di destinazione d'uso, la sentenza TAR Lazio, Latina, n°326/2022 tratta il caso di un comune che annulla una comunicazione di inizio attività di fisioterapia in assenza dell'autorizzazione urbanistica per il cambio d'uso: il cittadino insorge perché ritiene che la SCIA "commerciale" sia sufficiente ad autorizzare anche il mutamento d'uso, ma il TAR da ragione al comune, indicando che l'atto di autorizzazione urbanistica non necessariamente è implicito nella SCIA "commerciale" e che deve essere espressamente autorizzato, anche laddove non comporti l'esecuzione di opere edilizie. Nel caso di specie, peraltro, trattandosi di mutamento d'uso da commerciale a studio di fisioterapia ("servizi alle persone"), il mutamento d'uso è da intendersi rilevante, ai sensi dell'art. 23 ter DPR 380/01.
CdS n°840/2021 e precedente TAR Lazio sez. 2b n°6571/2021 - entrambe le sentenze sono sfavorevoli per il Comune di Roma, ed hanno ad oggetto una pergotenda installata in una attività commerciale nel territorio della Capitale. Come di consueto, non ci sono gli elementi per comprendere le esatte fattezze dell'oggetto del contendere (dimensioni effettive della pergotenda, dettagli esecutivi) ma si può intuire che si tratti di una struttura di dimensioni importanti (ma, nei dispositivi, si fa riferimento ad una "pergotenda stamponata almeno su tre lati"), visto che si parla di una area esterna pertinenziale in cui si svolge attività di ristorazione. il Comune riteneva l'attività soggetta a Permesso di Costruire, in quanto la legge stabilisce che sono "libere" le pergotende connesse agli immobili residenziali, intendendosi quindi non libere quelle sugli altri immobili. il TAR invece indica che ciò non ha senso e confliggerebbe con il principio di libertà dell'esercizio di impresa e quindi anche le pergotende di attività commerciali devono ritenersi attività libera o quantomeno vanno "lette" allo stesso modo di quelle residenziali. il CdS riprende la disposizione del TAR e la conferma, ma aggiunge ulteriori dettagli: nel caso di specie, parrebbe che la struttura sia stata installata all'interno di un cortile già delimitato da muri perimetrali e che abbia effettivamente coperto tutto lo spazio (o almeno così si intuisce), dunque si tratterebbe di una pergotenda che, una volta chiusa, delimita uno spazio chiuso: ma ciò non contrasterebbe, secondo il Consiglio, con il principio di fondo che si tratta pur sempre di una tenda - e non di una struttura, perché i travi sono finalizzati solo a sorreggere la tenda - che di per sé non è idonea a configurare un mutamento d'uso dello spazio, il quale sempre ad attività di somministrazione è destinato.
nei dispositivi non è affrontato il tema dell'autorizzazione sismica, la quale comunque, essendo la tenda realizzata prima del 2016 (anno di pubblicazione del regolamento sismico che specificava che le "pergole" di oltre 20mq vanno in autorizzazione), poteva forse ritenersi in effetti non cogente nel caso di specie. Anche se questa sentenza va nel senso di una liberalizzazione "selvaggia" della pergotenda per attività commerciale (il che è comunque una cosa positiva, perché era comunque ambigua e poco legittima la differenziazione tra destinazioni residenziali ed altre non residenziali) farei comunque attenzione al contesto e, sempre, porrei attenzione all'eventuale necessità di autorizzazioni degli enti preposti alla tutela di eventuali vincoli presenti. La sentenza appare in contraddizione con quello che era un filone che invece si andava consolidando e che vedeva le pergotende di locali commerciali come non rientranti nell'attività libera: ad esempio TAR Lazio n°12632/2017 ma anche più recente sempre TAR Lazio sez. 2 quater n°12832 del 13 dicembre 2021, la quale conferma invece che per una pergotenda di 55mq per 4 di altezza, connessa ad una attività (nel caso di specie un laboratorio artigiano) si configura come opera necessitante del permesso di costruire in quanto non può rientrare nella definizione di attività edilizia libera la quale si riferisce ad elementi pertinenziali e di arredo.
Altra sentenza emessa nel territorio di Roma Capitale, stavolta sfavorevole al cittadino ed inerente i sistemi di chiusura con teli avvolgibili in plastica di spazi destinati ad attività di somministrazione, è TAR Lazio n°3309/2021 sez. 2b: stavolta il tribunale riconosce il fatto che tali elementi configurano inequivocabilmente la creazione di uno spazio che produce SUL e, quindi, fa salva l'attività del Municipio che aveva intimato la demolizione.
Ancora nel merito annoso delle pergotende e del loro impatto architettonico, è da segnalare la sentenza TAR Lazio 12844 del 26 giugno 2024 attraverso la quale degli elementi obiettivamente di dimensioni non particolarmente grandi (circa 22 e 16 mq da quanto si può comprendere) ma installate in modo visibile anche da suolo pubblico e tali da impattare sui prospetti del fabbricato, sono da considerarsi comunque ristrutturazione edilizia anche se astrattamente riconducibili al novero dell'attività edilizia libera:
[...] interventi quali quelli attuati nel caso di specie (consistenti nell’installazione di due ampie pergotende su altrettanti terrazzi pertinenziali collocati all’esterno di un fabbricato sottoposto a vincolo culturale, ben visibili da ogni angolazione, come desumibile dalle fotografie allegate in atti proprio da parte del ricorrente) implichino un’alterazione dei prospetti dell’edificio necessitante, per ciò solo, di titolo abilitativo (eventualmente consistente anche in una SCIA ex art. 23, d.P.R. cit., purché assistita dal nulla osta dell’autorità preposta alla tutela del vincolo), e ciò ancorché la stessa si esplichi tramite un intervento astrattamente riconducibile al novero dell’attività edilizia libera (ma tale non è la pergotenda laddove, come nel caso di specie, determini un’evidente variazione di sagoma e prospetto dell’edificio, cfr. Cons. St., sez. II, n. 840 del 28.1.2021, nonché T.A.R. Lazio – Roma, sez. II quater, n. 12832 del 13.12.2021).
Dunque la sentenza è sfavorevole al cittadino il quale insisteva per ricondurre gli elementi alla semplice attività edilizia libera, anche se con riguardo all'assenza di autorizzazione vincolistica (l'immobile è vincolato dalla parte II del Codice) c'era poco da fare. la sentenza però è anche parzialmente favorevole al cittadino in quanto ribadisce che la delibera 44/2011 è irragionevole nella sua modalità di calcolo delle sanzioni amministrative.
CdS sez. VI n°1040 del 4 febbraio 2021 - Ampliamento su area paesaggistica e terzo condono; silenzio/assenso - questa sentenza è emessa su una vicenda così in estrema sintesi descrivibile: un cittadino acquista un immobile in cui sono stati eseguiti due ampliamenti, eseguiti in epoche diverse, sull'attico di un fabbricato che, nel 1989, viene inserito in un vincolo paesaggistico pur trovandosi in zona già urbanizzata. il primo ampliamento viene regolarmente condonato, mentre il secondo, essendo depositato ai sensi della L. 326/2003, viene rigettato dall'ufficio in quanto incompatibile con il presupposto fondamentale del terzo condono secondo cui non è ammissibile la sanatoria di opere ricadenti nelle tipologie 1, 2 e 3 in zone vincolate. nella sentenza vengono trattati i seguenti temi: il cittadino solleva la questione della nullità (ex art 21 septies, quindi nullità radicale) dell'atto di annullamento del condono, ma il CdS risponde che non vi sono i presupposti per evocare tale interpretazione radicale ma che, al più, l'atto sarebbe stato annullabile, se impugnato entro i termini, cosa che all'epoca non avvenne: l'annullamento pertanto non è più revocabile dall'istante e l'esistenza di un annullamento dell'istanza non più revocabile non è possibile invocare la maturazione del silenzio-assenso sul condono, come si era tentato di dimostrare; un secondo tema evocato per dimostrare le proprie ragioni contro le azioni di annullamento era quello di ritenere l'azione nulla perché l'ampliamento, eseguito al nono ed ultimo piano di un palazzo di una zona già urbanizzata ed edificata, e con densità edilizia medio-alta, sarebbe da ritenersi ininfluente ai fini di alterazione del paesaggio e, quindi, che non si applicherebbe al caso di specie la stessa normativa paesaggistica: tale visione è rigettata con forza dal Consiglio il quale così statuisce:
In primo luogo, l’apposizione su una data area di un vincolo di tutela paesaggistica è volta ad impedire o subordinare al previo controllo amministrativo qualsiasi intervento di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, suscettibile di essere integrato non soltanto dalle nuove costruzioni su terreno non edificato, ma anche dalle modifiche apportate agli edifici preesistenti, comunque idonee ad alterare lo stato dei luoghi e, dunque, ad arrecare pregiudizio al bene tutelato mediante l’apposizione del vincolo paesaggistico.
Come precisato da questo Consiglio, hanno una indubbia rilevanza paesaggistica tutte le opere realizzate sull'area sottoposta a vincolo, anche se non vi è un volume da computare sotto il profilo edilizio, poiché le esigenze di tutela dell'area sottoposta a vincolo paesaggistico possono anche esigere l'immodificabilità dello stato dei luoghi (Cons. Stato Sez. II, Sent., 12 febbraio 2020, n. 1090).[...] si fa questione di un intervento edilizio abusivo idoneo ad incidere sull’aspetto esteriore dell’edificio, alterandone la sagoma; per effetto della chiusura parziale del terrazzo di proprietà, si viene a realizzare un nuovo locale autonomamente utilizzabile, che si aggrega ad un preesistente organismo edilizio, per ciò solo trasformandolo non soltanto in termini di volume e superficie, ma anche in termini di sagoma; intesa come conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l'edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti (Consiglio di Stato Sez. II, 04 maggio 2020, n. 2842)
la sentenza poi torna ancora sul tema del silenzio-assenso nel condono, ribadendo che, anche laddove fosse ammissibile in linea generale, esso non può essere evocato quando comunque mancano i presupposti fondamentali per il rilascio del condono come, nel caso di specie, il fatto che si è realizzato un intervento ricadente in tipologia 1 in zona con vincolo paesaggistico con domanda presentata ai sensi della L. 326/2003 che espressamente lo esclude. Sempre nel merito del silenzio-assenso presunto, il Collegio sottolinea che lo stesso istante aveva depositato nel 2012 una richiesta di sollecito per la definizione del condono, dimostrando così che all'epoca non considerava esistente il concetto di silenzio-assenso successivamente invocato: in sostanza, se si presenta una domanda di sollecito, implicitamente si sta dichiarando che non si ritiene ammissibile il concetto del silenzio-assenso sulla propria domanda di condono: forse questo concetto è un po' spinto ma tocca fare attenzione anche a questo.
Sentenza TAR Lazio sez. IV ter n°19114/2023 - sempre nell'ambito delle istanze di condono depositate ai sensi della legge 326/2003 e L.R. 12/2004, con questa sentenza viene considerato legittimo il diniego espresso da Roma Capitale nei confronti di una istanza di condono presentata per sanare l'avvenuto ampliamento, a discapito di una intercapedine interrata, con creazione di cantine in luogo del locale tecnico tombato, in area sottoposta a vincolo paesaggistico. Nella sentenza vengono richiamati diversi temi tutti importanti: anzitutto, viene richiamato che nel Lazio è motivo ostativo al rilascio del terzo condono anche il vincolo sopravvenuto dopo la presentazione della domanda e/o dopo l'esecuzione dell'abuso; in secondo luogo, si richiama uno specifico filone interpretativo secondo cui anche gli ambienti completamente interrati sono suscettibili di creare nuovo volume (anche se secondo le regole del PRG vigente, ad esempio, ci sono diverse casistiche in cui la creazione di spazi interrati a servizio di immobili possono non sviluppare SUL) e, quindi, non possono ottenere il condono secondo la L. 326 perché questa vieta di poter ottenere il condono per le tipologie 1, 2 e 3 in zone vincolate; terzo, nel caso di specie non aiuta l'eventuale rispetto delle prescrizioni urbanistiche dell'intervento, pure evocata dal ricorrente, in quanto, dice il TAR, al più si tratterebbe di inquadrare l'abuso in tipologia 2 invece che 1, pur rimanendo nell'ambito di quelle tipologie per le quali il condono è precluso; quarto, il comune non è tenuto a rispondere punto per punto alle osservazioni dell'interessato, quando è palese che il diniego è un atto vincolato. Conclusivamente, il TAR rigetta il ricorso; tuttavia, nel caso di specie la ricorrente potrebbe valutare se ci sono i presupposti per ottenere il permesso in sanatoria, visto che è stato asserito che vi è il rispetto delle norme urbanistiche vigenti e che per i locali completamente interrati potrebbe non applicarsi il divieto generale di sanatoria di nuovi volumi, visto anche il punto A.15 del DPR 31/17 e la presumibile totale assenza di opere di sistemazione esterna connesse all'intervento. Ad ogni modo, è utile estrarre un passaggio della sentenza anche per annotare i riferimenti delle altre pronunce:
Ai fini della classificazione dell’intervento non risulta decisiva la natura interrata dei locali, pur sempre ricavati attraverso il recupero di uno spazio tombato, in precedenza inaccessibile, con conseguente incremento della volumetria complessiva dell’immobile. È pacifico, del resto, che “l'esecuzione di volumi, anche se completamente interrati è qualificabile come "nuova costruzione", così come espressamente stabilito dall'art. 3 lettera e1) d.p.r. n. 380/01, e, pertanto, ai sensi dell'art. 10 del medesimo testo normativo, deve essere assentita necessariamente con permesso di costruire” (Tar Lazio, Roma, sez. I, 30 agosto 2012, n.7396; nello stesso senso, Tar Abruzzo, Pescara, sez. I, 07 ottobre 2019, n. 235). Anche ai sensi della normativa paesaggistica, il divieto di incremento dei volumi esistenti viene riferito indistintamente a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volumetria, senza potersi distinguere tra volume interrato e volume fuori terra (ex multis, Cons. St., sez. IV, 31 agosto 2023, n. 8097; sez. II, 25 aprile 2023, n. 4123).
7.2. Appurato, dunque, che trattasi di un intervento realizzato in area vincolata e non riconducibile agli “abusi minori” (di cui di cui ai nn. 4, 5 e 6 dell'allegato 1 alla l. 326 del 2003) in quanto di nuova costruzione, il diniego di condono costituiva esito ex lege obbligato del procedimento (cfr. supra par. 5), senza che l’amministrazione fosse tenuta a svolgere ulteriori valutazioni.
Sentenza Consiglio di Stato sez. VI n°4794/2019 - è una sentenza che si riferisce ad una vicenda inerente proprio Roma Capitale, la quale contesta, ad una società che svolge attività di ristorazione, di aver eseguito in centro storico degli interventi che non erano autorizzabili mediante le DIA che erano state presentate. In particolare, se ho ricostruito correttamente i fatti di causa, gli interventi erano finalizzati in parte ad interventi riconducibili alla manutenzione straordinaria e risanamento conservativo e, in parte, debordavano in ristrutturazione urbanistica laddove prevedevano l'accorpamento di locali situati in fabbricati diversi, seppur contigui. Su quest'ultimo punto il Collegio dà ragione a Roma Capitale e classifica detta fattispecie come intervento di ristrutturazione urbanistica, autorizzabile, in centro storico, solo con procedure indirette e non, quindi, con un atto privato quale DIA (oggi SCIA), manifestando quindi il fatto che tale opera, seppur rappresentata nelle istanze, è da ritenersi priva di titolo.
Emerge dalla sentenza anche una canna fumaria, realizzata all'interno del cortile del fabbricato: pur contestata dall'Amministrazione (anche perché da come si legge sarebbe assente il parere della Soprintendenza), viene considerata alla stregua di un "volume tecnico" dal collegio e, in quanto tale, non passibile della sanzione ripristinatoria, in quanto, nel caso di specie, non inciderebbe né sulla sagoma né sulla struttura dell'edificio.
nello svolgimento dei fatti si cita anche un ripristino della originaria destinazione d'uso di una porzione dei locali, ma questa fattispecie non viene contestata dall'amministrazione.
Specificatamente sulle canne fumarie in centro storico interviene (ancora) TAR Lazio n°9688/2020 sez. 2 quater con una sentenza, non appellata, che risulta interessante non solo perché conferma che in centro storico è giusto impedire la realizzazione di nuove canne fumarie anche in cortili non visibili da spazio pubblico (e questa sentenza in particolare appare "definitiva"), ma perché ripercorre e riprende il tema, ormai caldissimo, della natura del vincolo UNESCO, gestito in maniera forse maldestra dal PRG e dal Protocollo d'Intesa tra Comune e Soprintendenza, invece che avere, come dovrebbe, un proprio dispositivo di tutela autonomo e ricompreso nell'alveo del D.Lgs. 42/2004. Su questo tema ne ho parlato più diffusamente in quest'altro post ed è in diretta correlazione con la sentenza TAR Lazio 5757/2020 citata più sopra.
Ancora sulle canne fumarie, una recente sentenza TAR Lazio (sez. 2 bis n°5199/2022) nel merito di una canna fumaria per attività di ristorazione, ha specificato che, alla luce delle modifiche alla normativa nazionale introdotte con il decreto semplificazioni 2020 (DL 76/2020), la canna fumaria se posta fuori dalle zone A e in area non sottoposta a vincolo secondo il Codice dei Beni Culturali non è più qualificabile come opera di ristrutturazione edilizia pesante. Dunque ad oggi è da considerarsi opera di ristrutturazione leggera, con tutto ciò che ne consegue (dunque autorizzabile in SCIA art. 22 e non in SCIA alternativa art. 23 ma, per quel che rileva nel caso preso in esame dal TAR, non sarebbe demolibile).
Di nuovo sulle canne fumarie, TAR Lazio sez. 2 stralcio n°3214/2023 passata in giudicato, viene specificamente individuato che una canna fumaria realizzata, nel caso di specie, per l'evacuazione fumi di una caldaia condominiale è opera soggetta a SCIA, ai sensi dell'art. 22 comma 1 lett. a ) e/o lett. b); laddove fosse stata eseguita in assenza di titolo, si configura quindi l'iter sanzionatorio previsto per opere in assenza di SCIA. Si presti difatti attenzione al fatto che l'art. 22, nella sua versione aggiornata alle ultime modifiche del 2020, specifica che vanno in SCIA le opere di manutenzione straordinaria che interessano le parti strutturali ma anche quelle che interessano i prospetti. La definizione può dunque essere applicata anche alle canne fumarie di ristoranti ed attività di somministrazione. Si potrebbe qui discutere se per prospetto debba intendersi anche quello di cortili interni o chiostrine: a tal riguardo, chi scrive ritiene che laddove si tratti di cortili, ovvero spazi su cui possono affacciare anche ambienti abitabili, le fronti interne siano comunque da definirsi prospetti; più sfumata può essere invece la casistica della chiostrina, il quale in effetti nasce come vano tecnico o poco più.
la sentenza TAR Lazio 3716/2021 sez. 2 bis del 26 marzo 2021, anche se resa in forma breve, contiene degli spunti interessanti: un cittadino presenta una SCIA per ripristino della originaria destinazione abitativa di una piccola unità immobiliare ad uso ufficio, in città consolidata, nel comune di Roma: il municipio territorialmente competente annulla questa SCIA, successivamente ai trenta giorni imposti dalla legislazione, adducendo tra le varie motivazioni quella dell'impossibilità di autorizzare mutamenti d'uso verso abitativo in città consolidata (ne ho parlato diverse volte, principalmente in questo post). Il Tar censura l'operato del municipio, fondando la decisione sul fatto che l'annullamento della SCIA sarebbe avvenuto successivamente ai trenta giorni, i quali sono stati rafforzati dal comma 8 bis art. 2 L. 241/90 introdotto dal decreto semplificazioni disponendo la radicale inefficacia degli atti inibitori non confirmi all'art. 21 nonies. Specifica poi il TAR che il Municipio ha sbagliato nel non considerare l'originaria e precedentemente legittima destinazione d'uso residenziale dell'immobile: viene infatti specificato che tale presupposto consente sempre il ritorno ad uno stato originariamente legittimo. ritengo utile enucleare una parte del punto 6.8 della sentenza:
Esclusivamente per completezza di analisi, il Collegio rileva la lacunosità dell’istruttoria svolta dall’amministrazione che non ha considerato le specificità della fattispecie costituite dalla originaria sussistenza di una destinazione residenziale, dalla consistenza talmente esigua dell’unità immobiliare da rende palesemente illogico e non conferente il riferimento all’art. 45 comma 6 delle NTA del PRG concernente il c.d. mix funzionale, in specie tenuto conto della circostanza che nel caso che ne occupa viene in rilievo un ripristino della destinazione originaria in assenza di opere edilizie; tali elementi, infatti, complessivamente considerati, avrebbero dovuto costituire oggetto di esaustivo apprezzamento in quanto incidenti sulla ammissibilità dell’intervento ai sensi della generale disciplina recata nel d.P.R. n. 380 del 2001
il rimando all'art. 45 comma 6 invece sarebbe stato molto interessante se si fosse approfondito ulteriormente, pendendo ormai da troppo tempo una chiarificazione nel merito (vedi mio post linkato sopra).
Sempre nell'ambito delle opere di ripristino, con sentenza TAR Lazio sez. 2 bis n°11142/2021 è stato ritenuto corretto l'operato di un cittadino che con CILA operava il ripristino di un precedente stato autorizzato, anche se assimilabile ad un frazionamento, vietato nello specifico in quanto ci si trova in città storica tessuto T1. il TAR ha riconosciuto valide le doglianze del cittadino il quale sosteneva che un ripristino è un opera assoggettabile a CILA in quanto assimilabile alla manutenzione straordinaria. Importante anche il fatto che si sia accolta la tesi secondo cui il ripristino può essere fatto ad uno stato precedentemente legittimo anche se l'intervento, visto nella sua specificità, appare non ammissibile secondo le norme dello strumento urbanistico.
Sulle vetrate scorrevoli impacchettabili, contestate da Roma Capitale ad un cittadino del I Municipio, si è espresso TAR Lazio, Roma, sez. 2 bis, n°4581/2020 del 4 maggio 2020, su cui pende ricorso al Consiglio di Stato, identificando le strutture vetrate impacchettabili come elementi suscettibili di produrre una nuova superficie chiusa e, pertanto, necessitante del Permesso di Costruire (quindi no attività libera).
Ancora sulle vetrate scorrevoli e impacchettabili, è rilevante la sentenza Consiglio di Stato n°469/2022 che conferma il precedente orientamento TAR Lazio 11436/2017 secondo cui una vetrata composta da pannelli in vetro senza telaio, atti a chiudere completamente un balcone, delimitando quindi uno spazio chiuso, anche se possono avere i caratteri della temporaneità (come sottolineato da un tecnico verificatore, incaricato allo scopo di rilevare la struttura), costituisce alterazione di sagoma e di prospetti ed è assimilabile ad una veranda: per questi motivi, necessita del permesso di costruire e non può essere annoverata nell'edilizia libera. In questo post ho commentato più ampiamente questa sentenza.
E' illegittimo il silenzio di Roma Capitale di fronte ad una istanza di accesso agli atti, tale da tramutarsi in tacito diniego, quando il richiedente possiede i requisiti per accedere ai documenti richiesti. Soprattutto laddove l'istante ha necessità di accedere ai documenti amministrativi finalizzati all'impostazione di una pratica di super-ecobonus 110% la cui fruibilità è temporanea. Tar Lazio n°8968/2021.
Tra i primi tribunali amministrativi ad esprimersi sul concetto delle tolleranze esecutive introdotto dal decreto semplificazioni n°76/2020 e del suo nuovo art. 34 bis, vi è TAR Lazio che, con sentenza n°4413/2021 è andato a confermare il rigetto di una SCIA operato da un municipio romano in quanto la stessa prevedeva l'applicazione del criterio della tolleranza esecutiva riferendosi non alle misure della singola unità immobiliare ma a quelle dell'intero edificio. nel caso di specie, si riteneva di poter far rientrare nelle tolleranze una difformità, realizzata all'epoca della costruzione ed antecedentemente alla L. 765/67, di circa 17 mq su una unità immobiliare di una consistenza generale di circa 80mq, invocando la tolleranza del 2% riguardo all'intero fabbricato: il TAR conferma che il 2% deve riferirsi alla singola unità immobiliare.
con sentenza n°5389/2021 il TAR Lazio sez. 2 bis affronta una questione che tocca diversi temi, tutti interessanti per le questioni che ne sono alla base. Anzitutto, contrariamente a qualche recente orientamento sempre TAR Lazio e TAR Campania, sembra pacificamente accoglibile l'ipotesi che degli interventi strutturali possano essere condotti in sanatoria, seppure con le difficoltose procedure del caso. Secondo tema, quello della SCIA in sanatoria: da come ne parla il TAR, sembra ammissibile ritenere che una SCIA in art. 37 possa considerarsi efficace anche senza espressa risposta dell'amministrazione, anche se non nel caso di specie in quanto manchevole dell'autorizzazione del Genio Civile, senza la quale il titolo è comunque inefficace per incompletezza. Altro tema trattato di striscio ma comunque interessante, è quello relativo al fatto che il termine di 18 mesi per operare l'annullamento in autotutela, in caso di dichiarazioni dolosamente non veritiere, inizia a decorrere dal momento in cui tali fatti diventano noti all'amministrazione, e non, quindi, dal mero deposito dell'istanza. Inoltre, un titolo edilizio anche risalente nel tempo ma manchevole dell'autorizzazione sismica è comunque annullabile in ogni tempo.
Sempre TAR Lazio, sez 2bis n°5254/2021 (qui su Lexambiente), occupandosi di una attività di Promozione Sociale (alle quali è garantito uno speciale regime di deroga alle destinazioni d'uso) sottolinea il concetto secondo cui gli immobili utilizzati dalle associazioni devono comunque sottostare alle ordinarie regole edilizie per quanto riguarda le modifiche edilizie.
Tar Lazio sez. 2 bis n°8769/2021: conferma la bontà dell'operato del comune il quale, a distanza di circa 11 mesi dal deposito di una SCIA alternativa al PdC, ha inibito il titolo perché, prevedendosi la realizzazione di una serra solare, questa andava a "chiudere" l'unica finestra di un ambiente, rendendolo quindi non più conforme all'art. 40 del Regolamento Edilizio nella parte in cui obbliga a che gli ambienti abitabili siano dotati di finestre all'aria libera diretta che consentano l'ingresso di sufficiente aria e luce. Il Comune, secondo il TAR, avrebbe correttamente esercitato il potere di autotutela, nei termini previsti, ed avrebbe correttamente evocato l'interesse pubblico violato, individuato in quello della salute pubblica cui le regole igienico-sanitarie sono da sempre ispirate.
Tar Lazio sez 2 bis n°3716/2021: è illegittima l'inibizione di una SCIA, trascorsi i 30 giorni, che ha autorizzato il ritorno alla destinazione abitativa di una unità immobiliare a destinazione ufficio, sita in città consolidata, presentata anche ai sensi dell'art. 6 LR 7/2017 (rigenerazione urbana). Non viene toccato l'importante tema del divieto di mutamento d'uso verso residenziale in città consolidata, ma nemmeno è chiaro perché viene utilizzata una istanza ai sensi dell'art. 6 della rigenerazione (senza vedere le carte è impossibile entrare nel merito), comunque questa sentenza è interessante perché è tra le prime emesse dopo le modifiche alla L. 241/90 apportate dal decreto semplificazioni 2020 (DL 76/2020) che hanno teso a rafforzare il consolidamento delle istanze trascorsi i 30 giorni, introducendo il comma 8 bis all'art. 2 della citata norma che rende espressamente inefficaci i divieti di prosecuzione di opere edilizie emessi oltre i termini dell'art. 19.
Tar Lazio sez. 2 bis n°7809/2021, passata in giudicato: è legittimo l'annullamento di una SCIA, anche oltre i 18 mesi, che prevedeva l'installazione di una pergotenda con superficie di impronta a terra superiore a 20mq, in violazione, quindi, della necessità del deposito al Genio Civile del progetto, in virtù del regolamento sismico regionale (del 2016, quale vigente all'epoca dei fatti, oggi sostitutito da quello del 2020 che presenta comunque la medesima indicazione). Il regolamento in verità, parla di "pergolati" ma il TAR indica che, correttamente, la struttura della pergotenda è stata assimilata a questa categoria di oggetti e, quindi, anche questi debbono sottostare all'obbligo di deposito. Quanto alla legittimità dell'annullamento oltre i 18 mesi (oggi 12, ndr) dell'art. 21 nonies L. 241/90, il TAR specifica che la pratica era comunque inefficace, perché manchevole di un atto fondante. Se non comprendo male dalla laconica descrizione contenuta nella sentenza, sembra che questa pergotenda sia poi stata successivamente "converita" in una veranda, realizzando un tetto fisso e delle chiusure laterali in vetro: l'istante lamentava l'eccessiva durezza dell'ordine di demolizione e chiedeva il ripristino almeno della pergotenda, ma il TAR lo nega, in quanto la stessa pergotenda deve ritenersi priva di titolo.
Tar Lazio sez 2 bis n°9472/2021, centrata su un condono. Il cittadino impugna la lettera con cui Roma Capitale invita al ritiro della concessione, devolvendo delle somme a conguaglio, mentre viene ritenuto che il condono fosse ormai da ritenersi acquisito per silentium perché trascorsi i due anni dall'ultima integrazione dell'istanza o dall'ultimo versamento effettuato. il TAR rigetta la tesi e conferma la validità delle pretese del Comune, in quanto viene dimostrato che mancava della documentazione all'istanza (in particolare, dichiarazione IMU/Tarsu e variazione catastale), e che non era decaduto ancora il termine (decennale) entro cui l'amministrazione può pretendere il conguaglio degli oneri concessori, dunque l'istanza non poteva considerarsi acquisita per silentium. Inoltre, altra diatriba è sulla effettiva necessità degli oneri concessori, i quali vengono dal TAR confermati in quanto nel caso di specie trattavasi di cambio di destinazione d'uso da locali garage (che viene indicato non sviluppare cubatura) e commerciale (che invece ne sviluppa) e dunque incidenti sul carico urbanistico e quindi legittimamente assoggettabili all'onerosità relativa.
Consiglio di Stato sez. VI sentenza n°6333/2021, che conferma la validità della sentenza TAR Lazio 4373/2018, la quale aveva già confermato la validità dell'annullamento, da parte di un Municipio, di una SCIA ordinaria depositata, in sanatoria, per mutamento d'uso da servizi a commerciale: il fondamento del municipio è sulla incompetenza del titolo per il mutamento d'uso, in quanto lo stesso, essendo rilevante, era soggetto a Permesso di Costruire o DIA alternativa (oggi SCIA alternativa). I fatti evidentemente si svolgono prima del 2016, quando il mutamento d'uso rilevante è stato portato nell'alveo della validità della SCIA ordinaria, purché al di fuori della zona territoriale omogenea di tipo A.
TAR Lazio sez. 2 quater sentenza n°4635/2022. Interessante sentenza sotto diversi profili. Anzitutto, certifica, quand'anche ve ne fosse ulteriore bisogno, che le opere di diversa distribuzione spazi interni sono opere di manutenzione straordinaria che, in quanto tali, non necessitano né del Permesso di Costruire, né della SCIA ad esso alternativa: sono interventi che oscillano tra CILA e SCIA, a seconda dell'incombenza di interventi rilevanti ai fini della pubblica sicurezza (autorizzazione sismica). In secondo, conferma, anche se non ve ne era necessità, che sempre la diversa distribuzione spazi interni non è intervento assoggettabile ad autorizzazione paesaggistica, in quanto espressamente esclusa dal punto A.1 dell'allegato A al DPR 31/2017 (ma è implicito anche nell'art. 149 del Codice dei Beni Culturali). Un punto della sentenza che invece inserisce nuove certezze in un ambito prima incerto, è quello relativo alla interpretabilità della modifica tipologica di un parapetto di un balcone: trasformare un parapetto in ferro in uno in muratura, secondo i Giudici non integra una trasformazione di prospetto tale da essere definita opera di ristrutturazione edilizia, dunque, anche se non viene specificato, questo tipo di trasformazione può essere annoverato tra le opere di manutenzione straordinaria o di risanamento conservativo. Sempre dal corpo della sentenza emerge la conferma che un forno in muratura, realizzato nel giardino di pertinenza dell'abitazione, è attività edilizia libera (come anche specificato nel glossario unico), ma sembra cogliersi che sarebbe altresì sottratto all'autorizzazione paesaggistica, anche se questo passaggio è più sfumato.
TAR Lazio sez 2 stralcio sentenza n°9678/2022. Il certificato di agibilità può essere revocato anche a distanza di anni, nel momento in cui ci si rende conto che le opere eseguite per la costruzione di un fabbricato hanno comportato delle modifiche non autorizzate. nel caso di specie, da quel che si riesce a capire dalla lettura del dispositivo, le modifiche peraltro sembrano essere di modesta entità quali ad esempio diversa distribuzione spazi interni ma anche qualcosa relativamente alle destinazioni d'uso di un piano interrato. I giudici statuiscono di nuovo il principio generale secondo cui l'agibilità può ritenersi maturata solo laddove vi sia perfetta sovrapponibilità tra progetto e costruito. Questo principio, letto in modo così stretto, può portare a pensare che qualunque modifica, anche minima, agli edifici esistenti può comportare la necessità di presentare una nuova agibilità. questa eventualità non viene esplorata nella sentenza perché non riguarda interventi edilizi su edifici esistenti, ma invito a rifletterci su.
Sempre nel tema dell'agibilità, ma relativamente alla sua sussistenza in relazione alla validità di un contratto preliminare di compravendita, occorre segnalare sentenza Cass. Civ. 8749 del 3 apr 2024: in questa sentenza si affronta il tema di un immobile in zona Giustiniana con dichiarato uso residenziale, che viene promesso in vendita da una società ad un privato nel 2006, con - da quanto si intuisce - specifica clausola relativa al conseguimento dell'agibilità entro un determinato termine. L'immobile - sempre da quel poco che si riesce a comprendere leggendo solamente il dispositivo - era stato oggetto di un mutamento d'uso abusivo (da servizi comuni condominiali, palestra/piscina, ad abitativo) ma oggetto di istanza di condono in itinere; il condono nel frattempo veniva rigettato ma, con apposito ricorso al TAR, veniva invece resuscitato con obbligo all'amministrazione di provvedere: la difformità quindi è sostanziale e grave, in quanto compromette integralmente la possibilità di utilizzo dell'immobile in caso di rigetto dell'istanza. Dopo alterne vicende nei primi due gradi di giudizio, la questione approda in Cassazione che, in estrema sintesi, statuisce tre livelli di "gravità" dell'assenza di agibilità, ai quali corrispondono differenti conseguenze:
- gravità elevata, quando l'immobile non può ottenere la sanatoria delle difformità che precludono l'agibilità: in questi casi si parla di aliud pro alio e il contratto può essere risoluto per inadempimento;
- gravita intermedia, quando l'agibilità non c'è ma può essere conseguita nel futuro perché le difformità che aleggiano sull'immobile sono sanabili: in questo caso si tratta di mancanza di qualità essenziale quale fattispecie di vizio contrattuale, e non si può pretendere la risoluzione del contratto;
- gravità lieve, quando il mancato rilascio dell'agibilità è conseguenza di una istanza tardiva e non di mancanza dei presupposti.
TAR Lazio sez 6 sentenza 1184/2022 la realizzazione di un controsoffitto interno non può rappresentare un valido "confine di utilizzo" di un locale tecnico, quando questo sia stato realizzato più alto del limitei dei 240 cm imposti dalla DAC 7/2011 (che nella citata sentenza viene data per valida ed efficace, mentre secondo diverse interpretazioni sarebbe da considerare non entrata in vigore per mancato completamento dell'iter di validazione, contenendo delle modifiche al regolamento edilizio); dunque per i locali tecnici l'altezza deve essere definita da chiari elementi strutturali che ne denotano le caratteristiche senza possibilità di alterazione postuma.
TAR Lazio sez 2 quater sentenza n°5928/2022. la realizzazione di una recinzione metallica non è opera riconducibile al punto A.13 dell'allegato A al DPR 31/17, pertanto è soggetta ad autorizzazione paesaggistica. il punto A.13 in particolare descrive le opere di "modifica" di elementi quali recinzioni e cancelli, ma non la nuova realizzazione degli stessi.
Consiglio di Stato sez. II, sentenza 257/2023. In tema di mutamento d'uso verso attività turistico-ricettive, l'art. 25 delle NTA del PRG di Roma Capitale indica, come noto, che per potersi procedere nei piani superiori al primo è necessario che il fabbricato sia già "occupato" da attività turistiche per almeno il 70% della SUL. In una controversia amministrativa viene contestato ad un albergo in centro di aver prodotto un mutamento d'uso su un presupposto errato, e cioè quello di considerare attività turistica quella di "affittacamere", che effettivamente veniva svolta già da tempo nei piani superiori del fabbricato: l'attività di "affittacamere" è considerata attività "extralberghiera" e, per espressa previsione delle norme del regolamento per l'attività extralberghiera della Regione Lazio del 2015, in tal caso non si tratta di mutamento d'uso urbanistico in quanto l'immobile rimane (deve rimanere) nella destinazione residenziale. Il TAR Lazio, con sentenza 1006/2022 appellata dinanzi al Consiglio di Stato il cui esito è contenuto nella sentenza linkata sopra, aveva indicato che il fatto di aver avviato l'attività "extralberghiera" non consente di poter considerare mutato l'uso urbanistico da funzione abitativa a funzione turistica e, dunque, non sussisteva il presupposto di legge per poter operare il mutamento d'uso del resto del fabbricato: tale conclusione del TAR appare logica, in quanto è evidente che le norme del piano regolatore intendono impedire un ampliamento incontrollato delle destinazioni turistiche a danno di quelle residenziali. tuttavia, il Consiglio di Stato ribalta questa tesi e sottolinea il fatto che il presupposto per il piano regolatore si basa sulla effettiva "occupazione" di attività turistiche e non in concreto l'effettivo uso urbanistico: sulla base di questo principio, appare dunque potersi statuire a valle di questa sentenza che l'utilizzo extralberghiero può garantire presupposto per attuare il mutamento d'uso in turistico-ricettivo su porzioni di immobile che di fatto provengono (e rimangono, per via delle norme del regolamento attività extralberghiere) nella destinazione residenziale. Chi scrive, nel pieno e profondo rispetto che si deve nutrire verso gli organi della Giurisprudenza, appare interdetto di fronte a questa interpretazione perché si possono aprire in questo modo facili meccanismi per scardinare la regola del PRG e porre le basi per mutare l'uso di interi fabbricati verso la destinazione turistico-ricettiva "aggirando" il vincolo del 70% della SUL avviando e mantenendo per qualche tempo la destinazione extralberghiera: la considerazione operata dal TAR nella sentenza di primo grado sembrava seguire una logica più convincente. In ogni caso, nella questione nello specifico, la sentenza è comunque negativa per il soggetto privato in quanto l'istanza edilizia (una super-DIA del 2015) è stata ritenuta viziata in base ad alcuni elementi: il primo, che sarebbe stata dichiarata la non appartenenza dell'immobile alla carta per la qualità, quando invece ne avrebbe fatto parte e dunque mancava il parere della sovrintendenza capitolina a corredare il titolo; il secondo, perché nella modulistica sarebbe stato dichiarato che si sarebbe proceduto successivamente a comunicare l'inizio dei lavori, cosa che poi non sembra sia stata fatta, generando a distanza di un anno la decadenza implicita della validità del titolo abilitativo; il terzo, che non sarebbero stati versati gli oneri richiesti per il mutamento d'uso, dichiarando che non era dovuto alcun onere per via del fatto che si trattava di mutamento senza opere. Per tutti questi motivi, così sintetizzati dal municipio nella lettera di declaratoria di inefficacia, la pratica viene considerata viziata e dunque il privato comunque soccombe: la successiva integrazione, avvenuta nel 2019, alla istanza del 2015 del parere della sovrintendenza nel frattempo acquisito e del versamento degli oneri non è risultato sufficiente a ridare legittimità alla precedente pratica in quanto queste integrazioni sono intervenute quando il municipio aveva già provveduto a dichiarare inefficace il titolo: astrattamente si potrebbe dunque ritenere che laddove l'integrazione fosse avvenuta tempestivamente (il municipio prima della declaratoria di inefficacia sembra abbia inviato tutti gli atti di preventiva comunicazione ed avviso, dunque poteva aprirsi una interlocuzione che forse non è stata debitamente coltivata) l'intera pratica avrebbe potuto in linea del tutto teorica anche salvarsi. La vicenda comunque si svolge in città storica T1 ed in carta per la qualità come edificio a tipologia speciale "convento": nessuno contesta in questa vicenda la legittimità del mutamento di destinazione d'uso in sé e per sé (stante anche l'autorizzazione - seppure postuma - della sovrintendenza capitolina), che, quindi, va ritenuta una operazione fattibile anche nei tessuti meno permissivi dell'intera città: questa nota è inserita da chi scrive perché taluni ritengono che il mutamento d'uso nei tessuti T1 e T2 di città storica sia precluso a prescindere dalla indicazione del piano regolatore che specifica che non possono essere autorizzati interventi di RE2 i quali, secondo una delle circolari dipartimentali, "assimila" i mutamenti d'uso tra categorie funzionali differenti. La fattibilità del mutamento d'uso è invece consentita, a modesto parere di chi scrive, sia perché nel piano regolatore non vi è diretta ricomprensione dei mutamenti d'uso nelle categorie edilizie definite dall'art. 9 ed affinate dall'art. 24, sia perché le norme di tessuto della città storica espressamente lo prevedono, senza che vi siano indicazioni radicalmente contrarie nelle norme specifiche di tessuto, salvo, naturalmente, l'esclusione di alcune funzioni ritenute totalmente incompatibili con la città storica (ad esempio gli edifici produttivi ed i locali commerciali di grandi dimensioni). Interessante ancora sottolineare che nel caso di specie il parere postumo della Sovrintendenza non ha prodotto effetti retroattivi (e dunque di salvataggio del vecchio titolo) non perché non sia una procedura effettivamente ritenuta valida, ma semplicemente perché intervenuta dopo che il titolo aveva completamente perso efficacia per via della declaratoria di inefficacia del municipio: ciò in effetti apre alla ipotesi che titoli abilitativi che per mero errore ne nascono privi, possono essere successivamente integrati eviziando il titolo originario, purché vengano rispettati i termini della procedura di disciplina edilizia e si partecipi attivamente e fattivamente alle interlocuzioni con le amministrazioni.
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