Il presente post contiene dei dati che possono sembrare semplicemente degli "appunti storici" di normativa ormai pregressa, ma contiene in verità anche delle riflessioni sui risvolti che hanno a che fare con il presente. Parliamo delle abitazioni poste nei seminterrati dei fabbricati romani che, al variare nel tempo delle regole edilizie e delle norme di attuazione dei piani regolatori, sono state talvolta permesse e talvolta no.
stralcio casuale della tavola grafica del PRG del 1931 di Roma con la sua zonizzazione |
Conoscere i livelli di prescrizioni normative presenti nel passato è necessario nel caso si operi in accertamento di conformità, cioè per sanare per vie ordinare delle opere eseguite in assenza o nel mancato rispetto del progetto approvato. I piani regolatori oggi afferiscono all'ambito delle norme urbanistiche, quindi nell'attuazione dell'art. 36-bis attualmente vigente del DPR 380/01 sono norme, quelle di cui si dirà, di cui non è necessario andare a verificare la rispondenza: l'art. 36-bis, difatti, introdotto dal decreto salva-casa (DL 69/2024) ha differenziato la verifica della conformità tra norme edilizie, che devono essere verificate all'epoca della realizzazione dell'illecito, e quelle urbanistiche, le cui verifiche invece devono essere riferite al momento della presentazione dell'istanza. Tuttavia, il rispetto delle prescrizioni urbanistiche al momento della realizzazione dell'intervento rimane necessario nelle procedure soggette ad art. 36 e, nell'ambito del 36-bis, per la verifica dei presupposti per l'applicazione delle riduzioni delle sanzioni. Per ulteriori approfondimenti di questo aspetto vi rimando alla pagina già linkata nel presente paragrafo.
Partiamo anzitutto dalle regole generali del regolamento edilizio di Roma Capitale, il cui articolo 38 disciplina in modo abbastanza chiaro le caratteristiche che devono avere gli immobili per poter avere la destinazione residenziale anche se posti nei piani seminterrati, posto che nei piani completamente sottoterra o che siano fuori terra solo per una minima parte la destinazione residenziale è preclusa a prescindere.
Le regole sulla collocazione spaziale, altezza interna, dimensione delle finestre degli ambienti residenziali perseguono l'obiettivo fondamentale della tutela della igiene pubblica e del diritto delle persone a vivere in ambienti che possano garantire gli standard sufficienti di qualità sanitaria. Se una casa diventa umida perché è a contatto con il terreno, perché ci arriva poca aria e poco sole, oltre al fatto che l'aria rimane sempre fredda e con tassi di umidità al di fuori degli standard ideali insorgono anche le muffe, le quali sono grandi nemiche della salute personale attaccando l'organismo umano sotto vari fronti. Dunque in generale le regole edilizie sono ispirate ai principi igienico-sanitari che sono iniziati a nascere verso metà ottocento, in concomitanza delle grandi epidemie che si svilupparono in quel periodo a causa della sovrappopolazione delle città e della grande diffusione di immobili privi di qualsivoglia regola igienico-sanitaria (vedi la storia correlata alla gravissima epidemia di Colera esplosa a Napoli nel 1884 e che diede il via all'emanazione di norme generali sull'edilizia e sull'urbanistica che in parte utilizziamo ancora oggi). La salute pubblica è direttamente connessa all'ordine pubblico, e il disordine è il grande nemico di ogni governo, che sia democratico o no.
Ma torniamo alle regole specifiche della città di Roma. Dicevamo, il regolamento edilizio di Roma, che risale al 1934, detta delle norme specifiche per le abitazioni che si trovano al di sotto della quota del terreno (art. 38), ma è anche vero che, contraddicendosi da solo in qualche modo, indica anche che le abitazioni poste al piano terreno devono essere rialzate dalla quota stradale di almeno un metro. Queste regole sembrano in contraddizione tra loro ma in verità possono ritenersi come applicate a contesti diversi: la regola del metro da terra si applica solo laddove l'appartamento affacci direttamente su strada, mentre quella sulle abitazioni nel seminterrato è generale e pare applicarsi ovunque. Trattandosi di una norma avente principale vocazione igienico-sanitaria, si ritiene legittimo che tali regole possano essere derogate laddove si ottenga un espresso nulla-osta della ASL, che assolve ad oggi il ruolo che un tempo era del servizio di igiene comunale, e che neppure possa ritenersi disapplicata la regola ad oggi vigente secondo cui il professionista, in caso di destinazione residenziale, può dichiarare la sussistenza delle condizioni igienico-sanitarie per le destinazioni residenziali (nei moduli SCIA utilizzati a partire dal 2016 la dichiarazione è già contenuta espressamente e può ritenersi parte integrante delle dichiarazioni rese dal tecnico).
Tale disciplina è stata regolarmente applicata ai progetti presentati ai sensi del piano regolatore del 1931, di pochi anni precedente all'emanazione del regolamento edilizio aggiornato, e per diverso tempo si è andato avanti senza particolari problemi. Agli inizi degli anni cinquanta, quando si è compreso che lo sviluppo urbano della capitale diventava impetuoso e l'attuazione urbanistica della città avveniva mediante la realizzazione di singoli piani particolareggiati di ampliamento del PRG del 1931 (che non riguardava ancora l'intero territorio comunale), il legislatore probabilmente ritenne che le abitazioni nei seminterrati non potevano più rispondere alle esigenze di qualità abitativa minima, soprattutto nelle zone a più elevata densità abitativa e, pertanto, volle introdurre una modifica alle norme tecniche di attuazione tali per cui si disapplicava la regola dell'art. 38 limitatamente alle zone urbanistiche "a palazzine". Dato che il piano regolatore del 1931 è stato approvato con Regio Decreto Legge poi convertito in legge ordinaria, le modifiche a quella disciplina potevano avvenire solo con la promulgazione di una nuova legge.
La norma di cui si parla è la L. 444/1955 (pubblicata in gazzetta il 1 giugno 1955) che si compone di un unico articolo che andava a sostituire integralmente l'art. 2 dell'allegato al R.D.L. 981/1931 che contiene le norme tecniche di attuazione del Piano del 1931. Di seguito si riporta lo stralcio che qui interessa di questa norma (se interessa leggere l'intero articolo, in quest'altro post ho riportato per intero tutte le norme tecniche del PRG del 1931).
L. 10 maggio 1955 - Articolo unico.
L'art. 2 delle "norme generali e prescrizioni tecniche per l'attuazione del piano regolatore e di ampliamento della città di Roma" approvate col regio decreto-legge 6 luglio 1931, n. 981, convertito nella legge 24 marzo 1932, n. 355, è sostituito dal seguente:
Art. 2. - "Nelle zone destinate a palazzine le costruzioni dovranno presentare le seguenti caratteristiche:[omissis]"Nelle palazzine non sono ammessi i locali semisottosuoli per uso abitazione di cui all'art. 38 del vigente regolamento edilizio di Roma, fatta eccezione per l'abitazione del portiere.
"Per quota del terreno deve intendersi la quota delle aree libere circostanti alle palazzine, a sistemazione avvenuta del terreno stesso, non tenendo conto, peraltro, di eventuali rampe di accesso a locali sottostanti.
[omissis]
La disposizione va a modificare la disciplina edilizia delle zone "a palazzine", con esclusione di tutte le altre zone (ad esempio esistevano anche le zone a villini, sulle cui aree la disciplina di cui si parla non vale) di piano: dunque non è una norma di applicazione generale ma vale solo nei lotti a cui era attribuita tale specifica zonizzazione.
Le norme citate hanno avuto efficacia per solo pochi anni, di fatto dal giugno del 1955 fino all'adozione del nuovo piano regolatore che è avvenuta nel dicembre del 1962. ragionando in termini restrittivi si potrebbe comunque supporre che la sopravvivenza di queste norme arrivò fino all'approvazione definitiva del nuovo PRG che risale a tre anni più tardi ovvero dicembre 1965, in quanto l'adozione di un piano fa scattare le norme di salvaguardia durante le quali vigono contemporaneamente le disposizioni del piano vecchio e di quello nuovo, in una sorta di inviluppo legislativo in cui i progetti sono autorizzabili solo se conformi ad entrambe le discipline. La citata norma del 1955 formalmente è ancora in vigore, nel senso che non risulta sia stata abrogata. Tuttavia, la sua vigenza è da ritenersi esclusa in quanto ad oggi a Roma non è più valido il PRG del 1931 le cui norme venivano aggiornate da detta disposizione. Inoltre, nel piano vigente, così come nel piano del 1962, non esiste più la zonizzazione "a palazzine" dunque non vi sarebbe più il presupposto per attuarla o per comprendere dove essa debba trovare attuazione.
Non solo: la L. 444/1955 è modificativa del R.D.L. 981/1931 (il regio decreto legge che conteneva le norme di attuazione del PRG del 1931) il quale decreto è stato abrogato nella sua interezza dal D.L. 22 dicembre 2008 n°200 (la norma di "ripulitura" che ha abrogato oltre 29.000 norme desuete ma formalmente ancora attive). Pertanto, si tratta di una norma che è andata a modificare uno specifico articolo di un regolamento che è poi stato abrogato, dunque deve ritenersi anch'esso implicitamente abrogato dallo stesso DL 200/2008.
Si tratta pertanto di una disposizione non più vigente, che non può avere alcuna incidenza sull'attività edificatoria attuale. Se, ad esempio, si intendesse procedere ad un cambio di destinazione d'uso verso abitativo di quegli stessi ambienti in cui tale destinazione era preclusa nel 1955, ebbene tale cambio d'uso ad oggi sarebbe fattibile (sempre verificando caso per caso in dettaglio la rispondenza a tutte le altre norme di settore ivi comprese quelle igienico-sanitarie) se le norme vigenti ad oggi non ne vanno espressamente in contrasto. Come detto, tuttavia, è una norma che può avere tuttora la sua importanza nel caso in cui si debba valutare la conformità dei progetti licenziati nell'ambito della sua validità anche e soprattutto in caso in cui si debba procedere mediante accertamento di conformità. Anche laddove fosse che si proietti una qualche forma di disciplina postuma, la norma è limitata alle palazzine edificate nel periodo di vigenza della disposizione (giugno 1955-dicembre 1965).
Se anche a voi ha suscitato perplessità o curiosità il fatto che dalla disposizione fossero escluse le "abitazioni del portiere" occorre dire che non siete soli: sembra, dal tenore della norma, che i portieri e le loro famiglie potessero essere classificate come persone di diversa categoria e potessero vivere in ambienti insalubri. La disposizione può apparire discriminatoria ma vanno fatte una serie di considerazioni, senza tuttavia poter dare una risposta netta al legittimo dubbio: 1. le abitazioni dei portieri erano considerate una sorta di accessorio alla costruzione principale, costituendone una pertinenza: sotto certi aspetti non erano "veri" immobili residenziali, ma conservavano un rapporto di accessorietà e di subordinarietà, come se fossero classificabili più come locali commerciali o uffici; 2. erano comunque luoghi temporanei di abitazione, in quanto la famiglia del portiere vi avrebbe abitato solo finché vigeva il rapporto di lavoro, anche se tipicamente questo rapporto dura anni e talvolta decenni ma in casi non rari il posto di lavoro viene ereditato dai figli dunque l'abitazione in molti casi è stata "definitiva"; 3. fino a prima del 1955 era possibile ricavare abitazioni nei piani seminterrati nei limiti dell'art. 38 dunque probabilmente si è ritenuto che tali ambienti non fossero insalubri a prescindere, anche se nelle zone a palazzine si ritenne probabilmente che le abitazioni dei piani seminterrati potevano (ed in effetti hanno) una quantità di aria e luce limitate dai fabbricati limitrofi 4. il legislatore degli anni cinquanta probabilmente ha ritenuto che la norma, se avesse escluso anche le abitazioni dei portieri, avrebbe creato un danno economico ai costruttori (se, magari!) che avrebbero dovuto riservare al portiere uno degli alloggi "buoni" della costruzione.
Detto ciò, l'abitazione del portiere presente nel progetto, ad oggi, può essere considerata una unità immobiliare "pienamente" abitativa? in effetti il dubbio può sorgere in quanto se l'alloggio non è più utilizzato per il portiere, può diventare una abitazione "definitiva" e ciò può apparire in contrasto con il rapporto di accessorietà che questo ha con il fabbricato. Di base tuttavia rimane una destinazione abitativa ai fini del computo degli oneri concessori e deve ritenersi avere comunque la possibilità di utilizzo a fini residenziali, ma forse non in senso "definitivo"? La questione non è mai stata dibattuta o almeno a me non risulta (segnalatemi eventuali sentenze sul tema o pareri comunali romani) ma potrebbe essere opportuno, in caso di dismissione dell'abitazione del portiere, presentare una istanza per cambio di destinazione d'uso per eliminare il rapporto di accessorietà: il tecnico, nell'ambito di questa procedura, valuterà l'eventuale necessità di integrare o migliorare le condizioni igienico-sanitarie, ottenere un nulla-osta ASL o, in alternativa, rilasciare la propria dichiarazione di rispondenza dell'ambiente alle norme sanitarie. In ogni caso, salvo che l'intervento non comporti ulteriori opere, il cambio d'uso da "alloggio portiere" a "abitazione" è una operazione assolutamente priva di oneri e di monetizzazione degli standard perché non vi è cambio di carico urbanistico, da effettuarsi in SCIA se al di fuori della zona A o in espressa attuazione dell'art. 23-ter comma 1-quinquies ed in SCIA alternativa se in zona A.
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