domenica 19 novembre 2023

fiscalizzazione dell'abuso edilizio

Riguardo al superbonus 110% ho sempre detto che, tra i vari effetti prodotti che sono stati talvolta positivi ma talvolta anche negativi, ve ne è uno che mi ha impressionato per la sua rapida diffusione: mi riferisco al fatto che molti italiani sono stati messi di fronte al fatto che le difformità edilizie, anche detti "abusi", sono molto diffusi e spesso "nascosti", nel senso che possono annidarsi all'interno di fabbricati e dei quali i proprietari sono del tutto ignari. Tra i vari modi per approcciare al problema delle difformità viene spesso evocata la cosiddetta "fiscalizzazione dell'abuso": dato che di questa procedura sento dire cose giuste ma anche molte cose meno esatte, ho sentito l'esigenza di scrivere questo post specifico per riflettere assieme al lettore sui limiti e le opportunità che offre.


Il tema oggetto di questo post è stato oggetto di trattazione da parte di chi scrive anche in un post su LavoriPubblici.it del 2021.

Le difformità edilizie: i mostri spesso nascosti

Di base, la legislazione italiana di fronte ad una difformità edilizia prevede come strada maestra quella della demolizione: le regole edilizie servono a garantire non solo che tutti possano usufruire delle risorse pubbliche allo stesso modo, ma anche che tutti possano vivere in edifici sicuri, con il giusto quantitativo di aria e luce, con la giusta distanza dalle costruzioni confinanti, in zone in cui i servizi sono proporzionati agli abitanti insediabili. Dunque un costruttore o un proprietario che realizza delle cubature non previste, o aumenta l'altezza del fabbricato o riduce le distanze, anche semplicemente chiudendo a vetri un balcone o una terrazza, commette un abuso che va ad incidere con le regole comuni che sono state studiate per distribuire in modo equo i diritti e i doveri. Per questi motivi una costruzione che vìola queste regole, come approccio principale deve essere rimossa o riportata allo stato legittimo, mediante demolizione delle porzioni difformi dal progetto. 

Una difformità, però, potrebbe non essere tale da causare danno ai principi base dell'urbanistica: ad esempio una finestra spostata, posizionata su una facciata di un edificio la cui sagoma è legittima, facilmente non produce nocumento alle regole di base e quindi potrebbe avere le caratteristiche per ottenere una licenza in "accertamento di conformità", ottenendo un titolo edilizio ora per allora. Delle varie casistiche di abuso in cui si può incorrere vi rimando a quest'altro mio post di qualche tempo fa, ma tuttora valido. In questo modo, l'abuso smette di essere tale e lo stato legittimo dell'immobile torna ad essere verificato.

le procedure di sanatoria ordinaria e straordinaria

prima di scendere nel dettaglio della procedura della fiscalizzazione dell'abuso, può avere senso ripassare brevemente le procedure, passate e presenti, che consentono di gestire le difformità edilizie, ed i relativi limiti e vantaggi:

  • i condoni edilizi, che hanno consentito di presentare delle domande entro ristrette finestre temporali per sanare difformità anche molto gravi. I vantaggi della procedura sono che consente di far diventare legittime delle opere che per le vie ordinarie sarebbero destinate alla demolizione, anche in deroga agli strumenti urbanistici; lo svantaggio è che sono procedure straordinarie per cui se si è presentata la domanda in tempo bene, altrimenti non ci sono ulteriori possibilità. Finora (novembre 2023) di condoni ne sono stati aperti tre: il primo con la L. 47/85, il secondo nel 1993, il terzo nel 2003.
  • l'accertamento di conformità, che consente in ogni tempo di sanare gli abusi edilizi o le difformità, ma con il limite della doppia conformità, la quale impone che si possa ottenere la licenza "ora per allora" solo se l'intervento era fattibile all'epoca della sua realizzazione così come sarebbe autorizzabile oggi. sostanzialmente, è una procedura che consente di ottenere una licenza postuma ma solo se l'intervento rispetta tutte le norme urbanistiche, dunque sostanzialmente il responsabile ha "solo" dimenticato di presentare un idoneo titolo edilizio prima di eseguire l'opera. Attualmente l'accertamento di conformità è normato dagli articoli 36 e 37 DPR 380/01 e, in via implicita, anche dall'art. 6 bis. La giurisprudenza sta via via sempre più allargando il concetto di "doppia conformità": se fino a qualche anno fa questa poteva essere circoscritta alle regole urbanistiche, ad oggi è stato stabilito che le verifiche vanno estese anche a tutte le altre norme che hanno incidenza con l'edilizia, come ad esempio le norme sulla sicurezza delle strutture e quelle igienico-sanitarie.
...e se la difformità non è sanabile, ma non è neanche demolibile senza creare problemi alla parte legittima?

Se una difformità non è stata oggetto di condono e non può essere ricondotta all'accertamento di conformità, ha di fronte a sé solo la demolizione.
Tuttavia, può capitare che la demolizione non sia affatto facile, soprattutto quando si tratta di difformità compenetrate all'interno di più ampi fabbricati nati almeno parzialmente in modo legittimo. Non è raro ad esempio imbattersi in fabbricati civili che sono stati costruiti in base ad un originario titolo edilizio, ma che nella costruzione l'esecutore ha operato con troppa libertà, magari allungando leggermente un fronte o aumentando di qualche decina di centimetri il volume: se queste libertà non possono essere ricondotte alle tolleranze esecutive, si tratta di difformità edilizie, e se hanno comportato ampliamenti di cubatura o di superficie rispetto al progetto, è altamente probabile che non possano essere condotti in accertamento di conformità. Dunque occorrerebbe demolire: ma come si può demolire una porzione di fabbricato compenetrata in modo quasi indivisibile in un edificio che, nel bene e nel male, ha una sua legittimità? a questa domanda risponde proprio la procedura della fiscalizzazione: sostanzialmente, laddove una difformità non può essere rimossa senza creare un pregiudizio alla porzione legittima di fabbricato, la legge consente di convertire in moneta quella che avrebbe dovuto essere la sanzione demolitoria. La procedura è prevista dagli articoli 33 e 34 DPR 380/01, secondo le specifiche disposizioni dei due articoli, le quali in parte finiscono per sovrapporsi in senso pratico.

Dato che la norma si evolve in continuazione, trascrivo dal sito www.normattiva.it qui di seguito il testo vigente degli articoli 33 e 34 al momento di scrivere il presente post:

art. 33 
Interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità
1. Gli interventi e le opere di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 10, comma 1, eseguiti in assenza di permesso o in totale difformità da esso, sono rimossi ovvero demoliti e gli edifici sono resi conformi alle prescrizioni degli strumenti urbanistico-edilizi entro il congruo termine stabilito dal dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale con propria ordinanza, decorso il quale l'ordinanza stessa è eseguita a cura del comune e a spese dei responsabili dell'abuso.
2. Qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell'ufficio irroga una sanzione pecunaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti dalla legge 27 luglio 1978, n. 392, e con riferimento all'ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell'abuso, sulla base dell'indice ISTAT del costo di costruzione, con la esclusione, per i comuni non tenuti all'applicazione della legge medesima, del parametro relativo all'ubicazione e con l'equiparazione alla categoria A/1 delle categorie non comprese nell'articolo 16 della medesima legge. Per gli edifici adibiti ad uso diverso da quello di abitazione la sanzione è pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile, determinato a cura dell'agenzia del territorio.
3. Qualora le opere siano state eseguite su immobili vincolati ai sensi del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (oggi d.lgs. 42, 2004, ndr), l'amministrazione competente a vigilare sull'osservanza del vincolo, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti, ordina la restituzione in pristino a cura e spese del responsabile dell'abuso, indicando criteri e modalità diretti a ricostituire l'originario organismo edilizio, ed irroga una sanzione pecuniaria da 516 euro a 5164 euro.
4. Qualora le opere siano state eseguite su immobili, anche se non vincolati, compresi nelle zone omogenee A, di cui al decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, il dirigente o il responsabile dell'ufficio richiede all'amministrazione competente alla tutela dei beni culturali ed ambientali apposito parere vincolante circa la restituzione in pristino o la irrogazione della sanzione pecuniaria di cui al precedente comma. Qualora il parere non venga reso entro novanta giorni dalla richiesta il dirigente o il responsabile provvede autonomamente.
5. In caso di inerzia, si applica la disposizione di cui all'articolo 31, comma 8.
6. È comunque dovuto il contributo di costruzione di cui agli articoli 16 e 19.
6-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi di ristrutturazione edilizia di cui 
((all'articolo 23, comma 01))
, eseguiti in assenza di segnalazione certificata di inizio attività o in totale difformità dalla stessa.

art 34

Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di
costruire

1. Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell'ufficio.
Decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell'abuso.
2. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale.
2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 23, comma 01, eseguiti in parziale difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività.

gli articoli 33 e 34 come visto in parte si sovrappongono, per esempio nella modalità di calcolo della fiscalizzazione, ma sono articoli che vanno letti secondo le loro profondissime differenze. Una delle differenze più spiccate è nella presenza di un titolo: mentre l'art. 33 parla espressamente di opere eseguite in difformità o in assenza di permesso, l'art. 34 è invece più preciso e prevede necessariamente che le opere difformi siano state realizzate nella vigenza di un titolo abilitativo: questo lascerebbe presupporre che qualunque intervento edilizio eseguito successivamente alle opere che sono oggetto di titolo edilizio sono da considerarsi come opere a sé stanti, sanzionabili nella loro specificità e non più con riguardo al titolo edilizio che sorregge il fabbricato cui ineriscono. Sono quindi abusi sanzionabili autonomamente ad esempio le verande realizzate in ampliamento su superfici che nascono come balconi o terrazze, e che per tale motivo non possono godere della fiscalizzazione.

Un elemento che invece accomuna i due articoli è quello delle norme speciali da applicarsi quando l'immobile è oggetto di vincolo derivante dal codice dei beni culturali e del paesaggio. Gli articoli 33 e 34 non citano espressamente altre tipologie di vincolo, ma queste sono evocate invece nell'art. 31 comma 3 in cui sono citati tra gli altri quelli delle aree protette o delle zone di rispetto idrogeologico: l'art. 31 fornisce la definizione di intervento in difformità totale (variazione essenziale) dal titolo edilizio, e quindi finisce per incidere indirettamente anche nella lettura delle disposizioni degli articoli 33 e 34: anche se la norma non è perfettamente chiara perché sembra definire una fattispecie non ulteriore, si è data interpretazione che in caso di vincolo di fatto non possono esistere le "difformità parziali" perché tutte le difformità saranno considerate in totale difformità dal titolo, con la conseguenza che non potranno mai beneficiare del principio della fiscalizzazione. Per gli immobili soggetti a vincoli, dunque, si restringono le possibilità di gestione delle difformità edilizie e si limitano alla demolizione/ripristino oppure alle fattispecie di "sanatoria" degli articoli 36 e 37, con le ulteriori limitazioni imposte dalle norme sul vincolo. Su questa interpretazione si veda ad esempio sentenza Cass. pen. 27149/2023 che cita altre sentenze precedenti sulla stessa linea.

Altro elemento che accomuna le due procedure è la modalità di calcolo dell'obolo da versare, ma questa la vedremo per ultima.

La differenza tra art. 33 e art. 34 è invece il quando si applica. l'art. 33 è dedicato alle opere di ristrutturazione edilizia, in assenza o difformità del PdC o della SCIA ad esso alternativa: sembra quindi che la norma sia applicabile solo alle casistiche dell'art. 10 comma 1 lett. c), ovvero le opere appunto di ristrutturazione edilizia che possono essere eseguite, a scelta dell'interessato, anche con SCIA alternativa ai sensi dell'art. 23 DPR 380/01. I più acuti potranno quindi lamentarsi del fatto che non esiste una procedura di fiscalizzazione per le opere minori, ovvero quelle autorizzabili in CILA o SCIA ordinaria: questo è vero ma è altrettanto vero che le opere che sono autorizzabili con questi titoli sono tipicamente fattispecie "minori" che più facilmente possono rientrare nelle procedure di accertamento di conformità e che sono quindi anche non soggette alla sanzione della demolizione, che è poi il presupposto primo dell'applicazione della fiscalizzazione. Non sempre in SCIA ricadono opere poco incidenti sull'edilizia, se è vero, come è vero, che in questo titolo oggi è possibile autorizzare anche opere di demolizione e ricostruzione entro specifici presupposti.

L'art. 34 invece si applica alle opere eseguite in parziale difformità dal titolo edilizio. sono quindi esclusi i casi in cui le opere sono state eseguite in totale assenza o in totale difformità dal permesso di costruire: in ciò l'art. 34 è radicalmente diverso dall'art. 33. nel 33 si è visto che è possibile fiscalizzare anche opere eseguite in totale assenza di titolo, mentre con il 34 deve per forza essere esistito un titolo originario, rispetto al quale l'opera è stata realizzata parzialmente difforme.

La Legge demanda alle regioni di definire quali siano le opere in totale difformità dal permesso, dalle quali implicitamente derivano quelle in parziale difformità a cui può applicarsi il principio della fiscalizzazione.

Chi può attivare la procedura

La legge non è del tutto chiara riguardo a chi materialmente da corso alla procedura di fiscalizzazione, ma sembra potersi dire con sufficiente sicurezza che debba essere una iniziativa della pubblica amministrazione, la quale nell'iter sanzionatorio di una difformità, effettua le valutazioni circa l'opportunità di convertire in una sanzione quella che dovrebbe essere una demolizione/ripristino. Tuttavia, alcuni comuni e municipi accolgono richieste di fiscalizzazione che provengono dalla parte privata, cioè direttamente dall'interessato: può non essere sbagliato anche questo approccio anche se in questi casi bisogna avere chiaro in mente che si tratta di una autodenuncia di un abuso a tutti gli effetti, e che se l'ufficio valuta come non applicabile il principio della fiscalizzazione, a quel punto la demolizione diventa un atto vincolato, cioè l'amministrazione non può non procedere.

Circa il fatto che l'art. 34 sia una procedura attivabile esclusivamente dall'ufficio sembra militare la sentenza Consiglio di Stato n°7857/2021. Secondo questa sentenza, anzi, la valutazione circa la fiscalizzazione dell'abuso può essere effettuata solo dopo aver emesso l'ordine di demolizione.

La fiscalizzazione difatti potrebbe non essere accolta o non ritenuta attuabile da parte dell'ufficio, e ciò può avvenire per diversi motivi dei quali se ne evidenziano alcuni:

  • l'intervento non rientra tra quelli di "parziale difformità" ma sconfina in quelli in difformità totale: si faccia attento riferimento alle definizioni emanate dalla propria regione (il Lazio ha fornito la sua definizione all'interno della L. 15/2008 art. 17);
  • l'intervento risulta demolibile senza recare pregiudizio alla porzione legittima. Il presupposto di tutto, difatti, è che la difformità sia talmente compenetrata all'interno della struttura dell'edificio che la sua demolizione risulti praticamente impossibile o eccessivamente complessa, tanto da incidere sulla staticità della porzione legittima del fabbricato. Un elemento "aggiunto" posizionato ad esempio semplicemente "poggiato" su una terrazza, tipo una tettoia o un volume in ampliamento chiuso, potrebbe ritenersi di facile rimozione senza pregiudizio alla restante parte del fabbricato: in tal caso si dovrà procedere con la demolizione.

La fiscalizzazione non è una sanatoria

è importante sottolineare che negli articoli 33 e 34 non si parla mai di legittimità edilizia derivata dalla procedura di fiscalizzazione. Questo concetto deve essere molto chiaro a chi decide di imbarcarsi in questa strada: non trattandosi di una sanatoria, anche versando le somme dovute, l'immobile non acquista lo stato legittimo. Si ricordi difatti che la procedura è "solo" una conversione in moneta di quella che dovrebbe essere una sanzione demolitoria: sostanzialmente si tratta di compensare lo Stato, ovvero la collettività, della necessità di mantenere in essere una difformità che non può essere rimossa per motivi oggettivi.

L'immobile, una volta fiscalizzato l'abuso, entra in una sorta di "limbo": non è legittimo, ma non può essere oggetto di sanzioni amministrative perché la procedura sarebbe già stata esaurita con la fiscalizzazione. Nei fatti non sarebbe possibile quindi presentare altre pratiche edilizie sull'immobile vista l'assenza di uno stato legittimo ai sensi dell'art. 9 biso comma 1 bis DPR 380/01, ma alcuni comuni potrebbero ritenere comunque eseguibili degli interventi edilizi purché non riguardanti la parte fiscalizzata. Potrebbero essere ammissibili opere sulla parte fiscalizzata laddove siano finalizzate a portare la conformazione verso uno stato legittimo, ripristinando o compensando le superfici per far sì che l'immobile diventi conforme, ma si presti attenzione al fatto che la norma attualmente non prevede espressamente una fattispecie di opere "conformative" che non siano l'esatto ripristino di precedenti stati di progetto.

Probabilmente si potrebbe dire che l'immobile fiscalizzato è comunque compravendibile, ma attenzione all'aspetto non secondario dell'agibilità: un immobile con una porzione fiscalizzata, non avendo uno stato urbanistico legittimo, potrebbe non avere i requisiti per essere agibile, in quanto per l'agibilità uno dei presupposti essenziali è, appunto, la legittimità edilizia. La già citata sentenza CdS 7857/2021 entra nel merito anche di questa delicata questione, pur non affrontandola nei termini suestesi: ci si limita a dire che agibilità e titolo edilizio fanno riferimento a presupposti diversi e potrebbe non ritenersi errata una conformazione in cui esiste una agibilità per un fabbricato che poi si è rivelato difforme. tuttavia, da un lato l'agibilità non è in grado di proiettare alcuna legittimità su un fabbricato che è privo del requisito, in quanto questo aspetto è appannaggio esclusivo del titolo edilizio; viceversa, dato che, invece, per l'agibilità uno dei requisiti è la conformità, si potrebbe ritenere che l'agibilità andrebbe a perdere di efficacia, proprio perché manchevole di uno dei presupposti.

Il calcolo della fiscalizzazione

La Legge dice abbastanza chiaramente che, in caso in cui l'abuso faccia riferimento a destinazioni non residenziali, si deve fare riferimento al valore venale dell'immobile moltiplicato per due. il valore venale secondo la Legge dovrebbe essere determinato dall'Agenzia delle Entrate (catasto) e non sembrano esserci alternative, ma non è raro imbattersi in calcoli eseguiti dal comune in autonomia: attenzione perché questo approccio potrebbe essere ritenuto illegittimo. Le leggi regionali possono disporre modalità di calcolo differenti: per esempio la Regione Lazio nella sua traduzione locale della norma nazionale ha tolto il riferimento all'Agenzia delle Entrate e dunque si può ritenere che in questa regione il calcolo possa effettivamente essere fatto dal comune o anche dall'istante in autonomia, e verificato dal comune.

Per le destinazioni residenziali, il criterio di calcolo è quello della ormai non più vigente legge sull'Equo Canone n°392/1978. Questa legge prevedeva un sistema di calcolo del costo di produzione sul quale qui non ci si intende dilungare anche perché in rete si trovano diversi riferimenti di facile consultazione: dal calcolo comunque si ottiene un valore per metro quadro che deve ritenersi essere la base di calcolo. Quello che qui interessa è capire se il valore dell'equo canone, stante il fatto che gli ultimi aggiornamenti ai valori risalgono al 1998, a distanza di 25 anni debbano essere attualizzati ad oggi oppure no. L'art. 33 evoca espressamente il fatto che il valore debba essere attualizzato al momento dell'"esecuzione dell'abuso" e espressamente indica che deve essere versato anche il contributo di cui all'art. 16 (il contributo di costruzione), mentre l'art. 34 non dice nulla riguardo alla rivalutazione né prevede espressamente nulla riguardo al contributo di costruzione.

La poca giurisprudenza specifica indica che il costo vada comunque attualizzato al momento dell'elevazione della sanzione, perché, altrimenti, il passare del tempo giocherebbe a favore del proprietario o esecutore dell'abuso in quanto con l'evolvere dell'inflazione, più tempo passa e più una somma "fissa" tenderebbe a ridursi di valore, con evidente illogicità in quanto se l'abuso danneggia le regole collettive, la sanzione deve essere proporzionata al danno arrecato al momento in cui viene elevata. Inoltre, essendo la fiscalizzazione una alternativa alla demolizione, ha senso che la sanzione sia proporzionata al valore che verrebbe colpito al momento della sanzione. Una delle sentenze più recenti ed anche più esaustive sull'argomento, e che sposa questa tesi, è a mio parere è TAR Sicilia (CT) n°3042/2023. La differenza di calcolo rispetto all'art. 33, che parla espressamente di calcolo della sanzione al momento dell'esecuzione dell'abuso, può essere giustificata dalla differente "entità" degli abusi che vengono gestiti mediante i due articoli 33 e 34.

Ancora sulla necessità di attualizzare il valore al momento dell'irrogazione della sanzione abbiamo la sentenza Consiglio di Stato n°3671/2023 da cui è forse più semplice estrarre un passaggio significativo:

Il Collegio, in definitiva, in ossequio al rinvio materiale di cui è fatto oggetto la normativa sull’equo canone ad opera dell’art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, ritiene debbano applicarsi i criteri di attualizzazione contemplati dalla normativa.

Infatti, diversamente opinando, si perverrebbe alla paradossale e non accettabile conclusione di consentire a colui che ha commesso l’abuso di lucrare effetti vantaggiosi dall’inerzia dell’Amministrazione nel perseguire l’abuso stesso.

Appare dunque chiaro che in caso di applicazione dell'art. 34 la sanzione calcolata ai sensi della legge sull'equo canone vada attualizzata, mediante rivalutazione ISTAT, ai valori vigenti al momento in cui è elevata la sanzione.

Sempre sull'aspetto della modalità di calcolo, è intervenuta anche l'Adunanza Plenaria n°3 del 8 marzo 2024 del Consiglio di Stato che ha ribadito, anche se in diverse forme, quanto già stabilito con la sentenza del 2023. Viene però aggiunta, forse secondariamente, una questione a mio modesto parere fondamentale: l'istanza di fiscalizzazione viene data per "buona" dai giudici, anche se sembra trattarsi di una istanza di parte, cioè una richiesta presentata spontaneamente dal privato interessato. Ciò andrebbe ad avallare la prassi già seguita in alcuni uffici secondo cui la fiscalizzazione viene accolta anche se non scaturente all'interno di un procedimento di disciplina.

L'Adunanza Plenaria comunque è andata a chiarire, laddove ve ne fosse bisogno, che l'"epoca di realizzazione dell'abuso" è quella in cui l'abuso viene effettivamente eseguito e completato. La nozione può essere stata oggetto di sviamenti interpretativi, in quanto secondo la giurisprudenza civile che rimane ferma, un abuso non smette mai di esserlo finché non viene sanato, anche se è stato "completato" materialmente in un determinato momento. Tuttavia, nel caso di specie, deve prevalere il dato letterale della norma che fa riferimento in effetti al momento in cui l'abuso viene generato.

una nota di chi scrive riguardo l'indicizzazione ISTAT

Leggendo il testo della sentenza dell'Adnunanza Plenaria sopra citato, quello che ha generato dubbi interpretativi è probabilmente la presenza della espressa necessità di una indicizzazione ISTAT del costo di produzione (locuzione presente in verità solo nell'art. 33 e non anche nel 34): questa indicazione a parere di chi scrive è stata inserita semplicemente perché l'adeguamento ISTAT è già previsto nella procedura di adeguamento del costo di produzione. in vigenza della legge sull'equo canone, ogni anno il Ministero emanava l'aggiornamento del prezzo di produzione, il quale veniva aggiornato semplicemente sulla base del valore ISTAT: quanto contenuto nell'art. 33, dunque, a parere di chi scrive, è semplicemente un richiamo a quel meccanismo di adeguamento. Tale principio è da tenere però disgiunto da quello secondo cui una volta determinato il valore del costo di produzione, questo debba essere attualizzato ad oggi: la fiscalizzazione deve essere una somma attualizzata perché sostanzialmente il non attualizzarla genererebbe un indebito vantaggio a favore di chi possiede l'abuso: se si facesse riferimento al valore "fisso" in una determinata epoca (quella di effettiva realizzazione dell'abuso) il passare del tempo continuerebbe a ridurre in termini relativi il valore. in verità, come anche chiarito da queste ultime sentenze citate, una volta stabilito il "prezzo di produzione", che è funzione dell'epoca di realizzazione dell'abuso, questo prezzo va attualizzato ad oggi. è possibile che anche per determinare il prezzo di produzione occorra applicare l'indice ISTAT: ad esempio per un abuso commesso in ipotesi nel 2004, dato che le tabelle ministeriali dell'equo canone si fermano al 1998, andrà dapprima indicizzato il valore base del 1998 al 2004, e poi ancora attualizzato dal 2004 ad oggi: sono procedimenti di calcolo diversi, il cui totale peraltro finisce sempre per coincidere (attualizzare un prezzo del 1998 ad oggi produce lo stesso valore che fare una indicizzazione dal 1998 al 2004 e poi dal 2004 ad oggi), ma la cosa può aver ingenerato dubbi interpretativi.

l'argomento è complesso e le casistiche molteplici: chi scrive, che è un tecnico che opera in ambito edilizio ed urbanistico, ha cercato di sintetizzare e chiarificare le molte visioni ed approcci che riguardano questo ambito. Rimane fermo che quanto scritto è frutto dell'esperienza e della valutazione di chi scrive e, pur garantendone la massima affidabilità, non ci si assume alcuna responsabilità riguardo alla veridicità e correttezza di quanto qui sopra affermato.


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