venerdì 26 dicembre 2025

autorimessa accessoria da PRG del 1931 non fa volume

i locali accessori non fanno volume imponibile

 In questo post riporto, con commento, il testo di due sentenze della giustizia amministrativa (TAR Lazio 8497/2024 e la relativa sentenza di appello CdS n°1647/2025) relative ad un tema forse mai affrontato così direttamente, ovvero quello della valenza ai fini urbanistici e "volumetrici" degli ambienti che nascono come "accessori" secondo le disposizioni all'epoca vigenti del PRG del 1931 che ammetteva espressamente la possibilità di realizzare tali elementi, pur non computandoli nei parametri urbanistici di progetto.


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Le pronunce traggono origine da un contenzioso tra un cittadino e Roma Capitale, nell'ambito di un diniego di permesso in sanatoria (art. 36 DPR 380/01) per carenza del requisito fondante relativo alla "esistenza" di volumetria imponibile per un ambiente che - da quel che si riesce a capire leggendo i dispositivi - nasceva come autorimessa posta al piano interrato di una palazzina.

Roma Capitale rigetta quindi l'istanza di permesso in sanatoria: il richiedente insorge dinanzi al TAR che rigetta le argomentazioni, e così pure farà il Consiglio di Stato. In sintesi, viene confermata la tesi secondo cui un volume che nasce come accessorio nei fatti non ha una propria autonomia volumetrica in quanto è generato per uno scopo accessorio e, come tale, la sua esistenza è funzionale alla volumetria legittima, senza aggiungerla od esservi compenetrata.

Sentenza TAR Lazio 8497/2024

Da qui in poi, si riporta il testo integrale della sentenza TAR Lazio 8497/2024. le evidenziazioni del testo delle sentenze in grassetto e i riquadri con le scritte su fondo di colore diverso, come il presente, sono miei appunti. Si omette la premessa.
FATTO e DIRITTO

1.- Con il gravame in esame l’odierno ricorrente, proprietario di un vano sito in Roma in [omissis], ha impugnato il provvedimento di rigetto n. prot.[omissis] relativo all’istanza di accertamento di conformità presentata ai sensi dell’art. 36 del D. P. R. 380/2001, avente ad oggetto il cambio di destinazione d’uso da magazzino ad autofficina.

L’amministrazione procedente sia in sede di preavviso di diniego, sia in seno al provvedimento finale di rigetto, ha motivato la propria determinazione sull’assunto della riscontrata natura accessoria e pertinenziale del locale rispetto all’edificio ad esso attinente escludendo, dunque, lo stesso dal computo della superficie edificabile e trasformabile. Essendo, pertanto, il vano in oggetto escluso dal computo della superficie edificabile prevista dal P.R.G. del 1931, l’Amministrazione ha desunto che il cambio di destinazione d’uso da “magazzino” a “laboratorio”, avvenuto nel marzo 1962, dovesse ritenersi non conforme alle previsioni urbanistiche vigenti al momento della trasformazione. Inoltre, in punto di conformità al momento della presentazione dell’istanza, la civica amministrazione ha, altresì, rilevato che, ai sensi dell’art. 4 N.T.A. del vigente P.R.G. “il locale completamente interrato, in precedenza destinato a magazzino, e quindi escluso dal computo della SUL, con la trasformazione a laboratorio determina un incremento di SUL su lotto completamente edificato”, in tal modo determinandosi un asserito contrasto con l’art. 48, co. 3, lett. D), N.T.A. P.R.G. (che vieta eventuali interventi di ampliamento nel tessuto urbano in questione). A tali elementi (in tesi tali da escludere la doppia conformità richiesta dalla legge), nella nota era soggiunto anche un ulteriore rilievo: “dal certificato di abitabilità dell’edificio, emanato con provvedimento n. [omissis] e dalla visura catastale (…) la destinazione dell’unità immobiliare in oggetto risulta autorimessa”, mentre “solo in data [omissis] è stata presentata la variazione catastale di destinazione d’uso da C/6 – “Autorimesse”, a D/8 “fabbricati costruiti o adattati per le speciali esigenze di un’attività commerciale e non suscettibili di destinazione diversa senza radicali trasformazioni”. Da tanto l’Amministrazione ha fatto discendere l’ulteriore considerazione secondo cui “non risulta dimostrato l’eventuale cambio d’uso risalente all’anno 1962”.

Da come viene riportato il dato fattuale che è al centro della interpretazione, l'autorimessa nasce come accessorio alla costruzione. Deve dedursi dunque che sull'elaborato progettuale dell'originaria costruzione dell'edificio sia espressamente indicata la natura accessoria dell'autorimessa quale superficie posta a servizio della costruzione, anche se ci si trova presumibilmente - anzi certamente - in epoca in cui ancora non esistevano gli standard urbanistici (introdotti dalla L. 765/67 e poi tradotti di fatto nel DM 1444/68). Tuttavia, dato che - per quel che si può comprendere - si tratta di una autorimessa posta nel locale interrato dello stesso fabbricato, a parere di chi scrive non si tratta di un vero e proprio "accessorio" come veniva inteso dalle norme tecniche di attuazione del PRG (che consentiva di realizzare autorimesse esterne e magazzini esterni alla sagoma) ma semplicemente di uno spazio dichiarato come "autorimessa" negli elaborati progettuali. In questa ipotesi, se confermata, non è così scontato definire accessoria la superficie, proprio perché all'epoca, non esistendo il concetto di standard urbanistico, non vi era un nesso diretto tra parcheggi e volumi edilizi. Tuttavia, con buona probabilità, l'autorimessa effettivamente era da escludere dal computo della SUL per le sue caratteristiche originarie e quindi, al di là della natura di accessorietà o meno, la trasformazione di tale spazio comporta a prescindere l'aumento di carico urbanistico e l'ampliamento della SUL, condizioni che, nel caso di specie, probabilmente non sono ammesse dal PRG vigente. Dunque è probabile non si tratti di un caso direttamente attinente il concetto di accessorietà quanto piuttosto di un caso di ambiente che non sviluppa SUL all'origine.

Avverso il prefato atto è insorto il ricorrente che ha dedotto, a sostegno del ricorso, un unico motivo di illegittimità così rubricato: “Eccesso di potere per illogicità manifesta, difetto di istruttoria, errore e travisamento dei presupposti di fatto. Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2, 3 e 4 N.T.A. del P.R.G. di Roma del 1931. Violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 6 e 48 N.T.A. P.R.G. vigente di Roma Capitale. Violazione degli artt. 23-ter, anche in relazione alla Circolare D.P.A.U. prot. 191432/2017 di Roma Capitale, e 36 del D.P.R. n. 380/2001. Violazione degli artt. 19 e 21-nonies L. n. 241/90”.

In primo luogo, si censura l’operato dell’amministrazione per non essersi avveduta che il locale oggetto di istanza di accertamento non solo non costituirebbe un “piano completamente interrato”, tale da essere escluso, ai sensi dell’art. 4, co. 2, N.T.A., dalle superfici trasformabili, ma non rivestirebbe neppure funzione accessoria e servente rispetto alle unità edilizie o immobiliari.

Secondariamente, il ricorrente ha evidenziato che il cambio di destinazione d’uso non avrebbe necessitato di alcuna sanatoria. Quest’ultima, infatti, sarebbe stata richiesta esclusivamente ad abundantiam, in ragione delle numerose autorizzazioni (autorizzazione antincendio, autorizzazione dell’Ispettorato provinciale del Lavoro, Autorizzazione ASL e DIA) già in possesso del ricorrente che attesterebbero, in tesi di parte, la “legittima destinazione d’uso” ad auto-officina del vano magazzino in questione, in conformità a quanto disposto dall’art. 6, co. 5, N.T.A

Con ulteriore articolazione censoria è stato dedotto che, pur volendo ammettere che la DIA presentata nel 1999 recasse una destinazione diversa da quella legittimamente derivante dai titoli edilizi, avrebbe comunque dovuto ritenersi preclusa la possibilità per l’amministrazione comunale di intervenire in autotutela, essendo da risalente tempo spirato il termine perentorio necessario per provvedere.

È stato rappresentato, infine, come il provvedimento di diniego si ponesse altresì in contrasto con l’art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001 che considera urbanisticamente irrilevanti i mutamenti di destinazione d’uso all’interno della medesima categoria omogenea. Trattandosi, nel caso di specie, di un mutamento inerente la medesima categoria produttiva, lo stesso doveva ritenersi ricadere nel campo di applicazione della sopra citata disposizione normativa.

Si è costituito il resistente Comune, confutando la fondatezza dell’avversa impostazione censoria ed insistendo per la reiezione del gravame.

All’udienza di smaltimento del 15 marzo 2024, tenuta da remoto secondo le vigenti disposizioni processuali, la causa è stata trattenuta in decisione.

2.- Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito esposte.

2.1- In via preliminare, preme rilevare che dalla formulazione del provvedimento gravato, si evince come l’opposto diniego abbia disconosciuto l’esistenza del requisito della doppia conformità urbanistica, motivando in ragione sia della configurazione del cespite interessato come vano interrato ed accessorio a servizio dell'edificio, e quindi escluso dal computo della superficie edificabile prevista dal P.R.G. di Roma del 1931, sia dell’impossibilità di desumere la legittimità della destinazione d'uso ad auto-officina del vano in questione in forza dei diversi atti amministrativi evocati dal ricorrente.

A fronte di tale rilievo, il ricorrente ha replicato mediante la messa in evidenza delle risultanze catastali nonché dei provvedimenti autorizzativi all’esercizio dell’attività rilasciate dal Comune di Roma, dando, tra l’altro, conto della particolare rilevanza di essi anche in base alle prescrizioni delle N.T.A. del P.R.G..

2.2.- Ciò posto le articolate censure non sono condivisibili.

Come evidenziato dalla giurisprudenza maggioritaria, che questo Collegio ritiene di condividere, "il cambio di destinazione d'uso di un immobile da magazzino ad autofficina, ancorché compatibile nella medesima zona omogenea, interviene tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee e, quindi, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico soggetta a regime concessorio oneroso, indipendentemente dall'esecuzione di opere" (T.A.R. Puglia, Bari, Sez. III 22 febbraio 2006 n. 571; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 11 aprile 2011 n. 3171).

La giurisprudenza amministrativa ha, dunque, dato rilievo, come criterio immanente, dell'avvenuto incremento del carico urbanistico, dal passaggio da una situazione di non fruibilità stanziale da parte dei residenti ad una situazione di utilizzo residenziale, lato sensu inteso. Ciò anche sulla base delle indicazioni fornite al riguardo dal Ministero dei Lavori Pubblici (in seguito: Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili) con la circolare n. 3357/25 del 1985, esplicativa delle disposizioni del condono edilizio di cui alla legge n. 47/85, laddove si è chiarito, con particolare riferimento alle tabelle, che non rientra nella tipologia quattro, ma nella prima, la trasformazione mediante opere di superfici e volumi non computati ai fini del rilascio del titolo originario in superfici o volumi destinati alla residenza (cfr. Cons. Stato, Sez. IV 13 dicembre 2017, n. 5874).

la circolare citata 3357/25 si riferisce al condono edilizio: forse non del tutto riferibile al caso di specie ma ritenuto parametro interpretativo di ordine generale.
Identiche, sul punto, le istruzioni diramate dal medesimo Ministero, con la successiva circolare n. 2241/UL del 17 giugno 1995, conseguente alla successiva normativa sul condono di cui alla legge n. 724/94. Secondo il Ministero, quindi, non rientrano nella tipologia 4 ma nella 1 - od eventualmente nella 2 o nella 3 - "le trasformazioni, con opere, di superfici o volumi non computati ai fini del rilascio del titolo originario, in superfici o volumi destinati alla residenza o all'uso produttivo".

Non può, poi, essere condivisa la tesi sostenuta dal ricorrente circa la piena corrispondenza della sua richiesta con quanto previsto dall'art. 36 del DPR n. 380/2001, per cui "in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire o in difformità da esso ... il responsabile dell'abuso o l'attuale proprietario dell'immobile possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda".

Come evidenziato, infatti, dall'Amministrazione nel provvedimento impugnato, il mutamento realizzato rimane comunque in contrasto con quanto disposto dall'art. 4 comma 1 lett. D delle NTA del PRG, per cui i locali, interrati o seminterrati, sono esclusi dal computo della Superficie Utile Lorda se destinati a funzioni accessorie asservite alle unità edilizie o immobiliari (locali tecnici, cantine, depositi autorimesse e parcheggi) e con quanto prescritto dall'art. 48 delle NTA al PRG in termini di volumetria massima.

in questo passaggio viene confermata una lettura che è comunque ovvia del piano regolatore, ovvero il fatto che gli ambienti interrati o seminterrati sono esclusi dal computo della SUL solo se destinati a specifiche funzioni, tra le quali peraltro ricadono quelle di autorimessa, ma solo entro i limiti del rispetto dello standard urbanistico. essendo citato l'art. 48 del PRG, peraltro, si desume che ci si trova in città consolidata quindi nemmeno è applicabile il principio di recupero delle superfici che non sviluppano SUL che è appannaggio della città storica. Per il caso di specie forse avrebbe avuto senso svolgere il discorso su una prospettiva diversa, ovvero quella relativa al fatto che il PRG del 1931, in quanto antecedente alle norme che introdussero il calcolo dei volumi edificabili (DM 1444/68) determina le dimensioni dei fabbricati in via indiretta, ovvero definendo la sagoma massima d'ingombro attraverso le distanze, le inclinate e le altezze massime, senza un diretto riferimento a ciò che sviluppa cubatura e cosa no.
La documentazione in atti ha, difatti, confermato l'assunto del Comune secondo cui il mutamento della destinazione d'uso ha comportato che un manufatto non rilevante sul piano urbanistico (in quanto interrato e adibito a magazzino e deposito), è invece venuto ad esistenza quale "volume" proprio per effetto del passaggio all'uso locale commerciale che, come è evidente, ne determina la collocazione in una ben differente categoria urbanistica (Consiglio di Stato sez. VII, 13/12/2022, n.10908).

Le riflessioni del TAR sembrano comunque suggerire che gli edifici debbano essere letti con gli occhi delle vigenti norme tecniche di attuazione, e non necessariamente applicando le norme in vigore al momento della costruzione degli edifici. Ciò nel caso di specie è negativo per il richiedente, ma per il contesto generale si tratta di un approccio logico in quanto i progetti di trasformazione vanno valutati applicando all'"ante operam" le regole vigenti, dunque computando i volumi come SUL quando non hanno le caratteristiche per essere esclusi secondo le direttive dell'art. 4.

Per quanto, infatti, la parte ricorrente si sia sforzata di affermare che i locali corrispondano ad un volume già "computato", ovvero già dotato di un proprio carico urbanistico, non può ritenersi sufficiente allo scopo la -peraltro solo affermata- autonomia strutturale e funzionale del locale seminterrrato, desumibile semplicemente dalle sue dimensioni e dal suo risalente impiego, circostanze entrambe non sufficienti di per sé a provare il "preesistente carico urbanistico".

Nel caso specifico, si sarebbe potuto provare a verificare se almeno parte dell'autorimessa superasse i limiti degli standard urbanistici: magari anche solo una parte avrebbe potuto essere computata in SUL.
Né sull'applicazione di tali parametri normativi, ostativi al buon esito dell'accertamento di conformità, può incidere la sussistenza delle autorizzazioni commerciali allo svolgimento dell'attività indicate anche nei locali del piano sotterraneo, pur ottenute dalla ricorrente, evidentemente non incidenti sui profili edilizi ed urbanistici dell'intervento, allo stato non regolarizzabili con lo strumento dell'art. 36 DPR n. 380/2016.

Qui il TAR va a toccare un argomento che è sempre stato di alternativa interpretazione, ed in parte va a smentire quanto è scritto proprio nel PRG, ovvero il concetto della legittimità delle destinazioni d'uso che risultino in essere prima dell'entrata in vigore del Piano stesso. Nel caso di specie la discriminante tuttavia appare essere la legittimità fondante della volumetria, e non la destinazione posta in un ambiente comunque legittimo, almeno come volume: dunque, in verità, non vi è sovversione delle regole già note.
L'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare l'accertamento di conformità, richiede che gli interventi abusivi siano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della istanza di sanatoria. Tale approdo, che richiede la verifica della "doppia conformità", deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento finalizzato a garantire l'assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità" (Consiglio di Stato sez. VI, 4 gennaio 2021, n. 43).

Parimenti, non può ritenersi che il passaggio da magazzino e deposito a esercizio commerciale non vada considerato, ai sensi dell'art. 23 ter inserito dalla legge n. 164/2014 nel D.P.R. 380/2001, come cambio di destinazione d'uso urbanisticamente rilevante.

Invero, in generale, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile deve considerarsi urbanisticamente rilevante e, come tale, soggetto di per sé all'ottenimento di un titolo edilizio abilitativo, con l'ovvia conseguenza che il mutamento non autorizzato della destinazione d'uso che alteri il carico urbanistico, integra una situazione di illiceità a vario titolo, che può e anzi deve essere rilevata dall'Amministrazione nell'esercizio del suo potere di vigilanza (cfr. ad es. Cons. Stato Sez. VI, 18 gennaio 2021, n. 534).

La giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di affermare che "anche un mutamento di destinazione d'uso meramente funzionale, ovvero senza la realizzazione di opere edilizie, può determinare una variazione degli standard urbanistici ed è in grado di incidere sul tessuto urbanistico della zona" (Cons. Stato, sez. VI, .18 luglio 2019, n. 5041 e 12 dicembre 2019n. 8454).

L'art. 17, comma 1, lett. n), del decreto legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, ha introdotto l'art. 23-ter del d.lgs. n. 380 del 2001 (la cui rubrica reca "Mutamento d'uso urbanisticamente rilevante"), il quale, recependo l'indirizzo interpretativo sopra riportato, ha affermato che "salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa, da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale".

Il passaggio da magazzino a uso commerciale va qualificato correttamente come intercorso tra categorie funzionalmente autonome, con tutto ciò che tale qualificazione implica sotto il profilo dei carichi urbanistici.

Pertanto, deve ritenersi che l'istanza di accertamento di conformità sia stata correttamente rigettata data l'abusività dell'intervento per la non sussistenza del presupposto della doppia conformità urbanistico-edilizia.

Il provvedimento impugnato, nel quale Roma Capitale ha, in definitiva, sufficientemente chiarito le ragioni del rigetto della sua istanza di sanatoria, appare, in base alla documentazione in atti e a tutte le argomentazioni che precedono, sorretto da una sufficiente istruttoria, con cui l'Amministrazione ha giustamente valutato l'intervento in questione alla luce del complesso quadro normativo, urbanistico ed edilizio, composto dal PRG e dalle NTA e da una ragionevole motivazione, in cui sono compiutamente esposte le ragioni di perdurante contrarietà del mutamento di destinazione de quo alle regole edilizie vigenti per la zona in cui l'edificio è collocato.

Conclusivamente, il ricorso dev’essere respinto.

3.- Le spese del giudizio, in ragione della complessità della vicenda esaminata, possono essere interamente compensate.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma (Sezione Seconda Stralcio), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge;

Spese compensate.


Sentenza di Appello Consiglio di Stato n°1647/2025


Si riporta qui appresso invece il testo integrale della sentenza di appello del Consiglio di Stato n°1647/2025, sempre omettendo la parte iniziale.
FATTO e DIRITTO

1. L’appellante impugna la sentenza che ha respinto il ricorso contro il diniego di accertamento di conformità del cambio di destinazione d’uso di un locale di sua proprietà da magazzino ad autofficina.

2. I fatti di causa rilevanti, quali emergono dalle affermazioni delle parti non specificamente contestate e comunque dagli atti e documenti del giudizio, possono essere sinteticamente ricostruiti nei termini seguenti.

2.1. L’appellante è proprietario di un vano situato al piano seminterrato di un edificio e con accesso carrabile alla rampa che lo collega alla pubblica viabilità, edificato in base alla licenza edilizia [omissis] e successiva variante [omissis].

2.2. Il 26 gennaio 2017 egli ha presentato un’istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 per l’accertamento di conformità della destinazione d’uso a officina meccanica del locale, come manifestata dal conduttore dell’immobile.

2.3. Previo invio del “preavviso di rigetto” ed esame delle controdeduzioni del proprietario, con determinazione dirigenziale [omissis] Roma Capitale ha respinto l’istanza per carenza del presupposto della doppia conformità, in quanto «l’avvenuto cambio di destinazione d’uso da magazzino ad autofficina determina l’inserimento del piano interrato nel computo della SUL dell’edificio con conseguente incremento di SUL, in contrasto con l’art. 48 c. 3 lett. d) delle NTA del PRG vigente».

3. Con il ricorso di primo grado l’interessato ha chiesto l’annullamento del provvedimento di diniego e l’accertamento della legittimità della destinazione d’uso del vano come officina prima del 1985 e prima del 2003, in applicazione dell’art. 6, comma 5, delle N.t.a. al P.r.g. (secondo cui «sono fatte salve le destinazioni d’uso legittimamente in atto alla data di adozione del presente PRG»).

4. Il TAR ha respinto il ricorso, compensando tra le parti le spese di lite del grado, in quanto ha ritenuto che venisse in rilievo un mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante realizzato senza titolo e che mancasse il requisito della “doppia conformità” posto dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.

4.1. L’interessato ha proposto appello contro la sentenza, chiedendo la concessione di misure cautelari.

4.2. Nel giudizio di secondo grado si è costituita Roma Capitale, chiedendo il rigetto del gravame.

4.3. È altresì intervenuta, a supporto dell’appellante, la [omissis] di [omissis], affittuaria del ramo di azienda per lo svolgimento dell’attività di autoriparazioni presso il locale in questione.

4.4. Alla camera di consiglio del 15 ottobre 2024 l’appellante ha rinunciato alla domanda cautelare e la causa è stata rinviata per la trattazione nel merito.

4.5. Nel prosieguo del processo le parti hanno depositato scritti difensivi, approfondendo le rispettive tesi.

4.6. All’udienza del 28 gennaio 2025 la causa è stata trattenuta in decisione.

5. Con il primo motivo di appello, si sostiene che il T.a.r. abbia trascurato il fatto che il vano era già utilizzato come autofficina prima del 1985, oltre che del 2003, e tale destinazione – da ritenersi legittima, perché all’epoca per il cambio senza opere non era necessario il titolo abilitativo – sarebbe salvaguardata dall’art. 6, comma 5, delle N.t.a., da interpretarsi nel senso che l’uso legittimo dell’immobile non è solo quello indicato nel titolo abilitativo della costruzione, ma può risultare anche dalla classificazione catastale e dalle autorizzazioni amministrative all’esercizio delle attività ivi insediate (nella specie, si richiamano una comunicazione dei vigili del fuoco del 1962 relativa all’autorizzazione antincendio, e autorizzazioni dell’ispettorato provinciale del lavoro rilasciate sia nel periodo dal 1963 al 1965, sia nel periodo dal 1972 al 1972, l’autorizzazione dell’Asl Roma E del 2001 e la d.i.a. del 1999 per interventi di manutenzione ordinaria da eseguirsi sulla «officina meccanica»).

6. Con il secondo motivo, si sostiene che il T.a.r. non abbia considerato come uno dei titoli richiamati non avesse una valenza solo commerciale, ma anche edilizia: il riferimento è alla d.i.a. prot. [omissis] del 1999 per lavori di manutenzione straordinaria, che era stata presentata dando conto della destinazione d’uso a officina dell’immobile, e che l’amministrazione avrebbe illegittimamente ritenuto inefficace a distanza di oltre venti anni dalla sua presentazione, ledendo l’affidamento del privato nell’uso legittimo dell’immobile.

7. Con il terzo motivo, si sostiene che il T.a.r., così come l’amministrazione prima di esso, abbia errato nel qualificare la fattispecie come cambio d’uso da vano pertinenziale (inteso come servente il fabbricato residenziale) a vano “utile”, con conseguente aumento di SUL (anche rifacendosi alla relazione tecnica allegata all’istanza prot. 53057 del 18 dicembre 1959, citata nel provvedimento impugnato, ma di cui non vi sarebbe traccia negli atti); al contrario, il magazzino, in quanto solo parzialmente interrato e accessibile dall’esterno tramite rampa, sarebbe stato già compreso nel computo della SUL, dalla quale, ai sensi dell’art. 4, comma 1, lettera d), delle N.t.a. sarebbero esclusi solo i locali completamente interrati e destinati a funzioni accessorie asservite al fabbricato, anche perché, secondo il P.r.g. del 1931, l’autorizzazione edilizia concerneva l’intero ingombro della superficie coperta.

in sede di ricorso al Consiglio di Stato il cittadino cerca di evocare la riflessione secondo cui il volume andrebbe considerato come sviluppante SUL fin dall'origine, indipendentemente dalla computazione come "accessorio".


8. Con il quarto motivo, si sostiene che il T.a.r. abbia errato nel disattendere la censura fondata sulla violazione dell’art. 23-ter del testo unico dell’edilizia approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, in quanto il mutamento funzionale rilevante a fini urbanistici è solo quello tra categorie diverse, mentre magazzino e autofficina rientrerebbero entrambi nella categoria “produttiva”.

9. I motivi di appello sono infondati.

9.1. Come la sezione ha già osservato, «la volumetria assentibile su cui si basa il calcolo degli indici edificatori è quella “abitabile”, perché consente di individuare l’estensione anche potenziale dell’insediamento umano e la pressione che lo stesso è necessariamente destinato a produrre sul contesto inteso come necessità di fruire delle opere di urbanizzazione, primaria o secondaria; le volumetrie di servizio, pur latamente intese, in quanto strutturalmente inidonee a incrementare ridetta pressione da parte della popolazione residenziale, che rimane immutata, sono inserite al solo scopo di migliorare la qualità della vita della zona anche in relazione al singolo complesso immobiliare. Esse si connotano, cioè, per una compatibilità con la categoria generale di riferimento, pur ricevendo una finalizzazione “mirata” a servizio, non convertibile in una qualunque delle altre tipizzate dal legislatore, ivi compresa quella cui accede, senza che il mutamento venga considerato “rilevante”. In sintesi, l’art. 23-ter del T.u.e. non individua un’autonoma categoria “pertinenziale”, essendo la stessa, proprio in quanto tale, quella della zona in cui si inserisce, ma mantenendo una finalizzazione d’uso diversa e mirata» (Cons. Stato, sez. II, 22 aprile 2024, n. 3645).

9.2. Nel caso di specie, questo implica che il cambio d’uso del locale magazzino, già a servizio degli altri locali abitativi, in autofficina, dunque in locale produttivo, ha comportato una modifica urbanisticamente rilevante, che rendeva necessaria la previa acquisizione del permesso di costruire, ed è dunque condivisibile la tesi dell’amministrazione, e del T.a.r., secondo cui tale mutamento di destinazione ha condotto a un aumento di SUL, con conseguente mancanza della “doppia conformità” richiesta ai fini della sanatoria cui aspira l’appellante.

il Consiglio di Stato aderisce alla tesi del TAR e considera il volume originario come accessorio e privo di volume imponibile, ciò indipendentemente da come esso vada qualificato ad oggi ai sensi dell'art. 4 NTA cioè se sviluppi o meno SUL. Ciò appare in parziale contraddizione con quanto indicato dal TAR che invece tale ipotesi sembrava ventilarla, anche se secondo una prospettiva comunque negativa per il cittadino. Il principio dell'originaria accessorietà sembra soverchiare ogni altra logica urbanistica, per cui il volume deve ritenersi originariamente privo di qualsivoglia volumetria, indipendentemente da come vada ad oggi computato. La logica di questa mancata computazione risiede nella funzione accessoria della superficie, cioè servente rispetto alle volumetrie primarie che ospitano le destinazioni. Le funzioni accessorie in sostanza servono a migliorare la fruibilità e funzionalità delle destinazioni primarie e se queste ultime vengono private delle loro accessorietà, ciò può determinare una dequalificazione della qualità abitativa. In ciò dunque risiede il fatto che il cambio d'uso da superficie accessoria a superficie primaria contempli non un cambio d'uso ma un vero e proprio ampliamento.


Sono quindi infondati il primo, il terzo e il quarto motivo di gravame.

9.3. Non conducono a una diversa conclusione le autorizzazioni richiamate dall’interessato, le quali non hanno rilevanza ai fini edilizi, con l’eccezione della d.i.a. del 1999, la quale, però, può legittimare solo le opere, di manutenzione straordinaria, per cui è stata presentata e non gli interventi preesistenti, che nel testo sono richiamati solo a fini ricostruttivi.

altro punto interessante. La DIA del 1999 che il cittadino cerca di evocare come implicitamente legittimante della destinazione d'uso, in quanto non contrastata all'epoca. Qui la visione è coerente con l'interpretazione tipica del concetto di stato legittimo, anche relativamente alla attuale stesura dell'art. 9-bis comma 1-bis DPR 380/01 secondo cui i titoli edilizi nel loro complesso contribuiscono alla legittimità dell'immobile. Ma non solo questi partecipano singolarmente ed atomisticamente, ma solo nel suo complesso e soprattutto nella loro continuità, coerenza e regolarità rispetto ai titoli precedenti. Interessante comunque il fatto che la DIA non vada ritenuta inefficace in radice, ma che essa possa mantenere una legittimità solo relativamente alle opere che è andata ad autorizzare, come a dire che se venisse in qualche modo recuperata la legittimità fondante iniziale, tale titolo edilizio potrebbe in ipotesi recuperare la sua legittimità: è una visione che ho sempre cercato di sostenere.


È quindi infondato anche il secondo motivo.

10. L’appello è dunque meritevole di rigetto nel suo complesso.

11. Novità e complessità della vicenda, anche in fatto, giustificano comunque la compensazione delle spese di lite del grado.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione II, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge; compensa tra le parti le spese di lite del grado.

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