domenica 12 febbraio 2023

murales e titoli abilitativi

La cosiddetta street art è un fenomeno di lungo corso, forse nato assieme a quei primi aggregati che l'umanità chiamerà poi città: si tratta di segni grafici eseguiti sulle pareti degli edifici e che possono essere dei loghi, dei testi o dei veri e propri dipinti, finalizzati a manifestare le esigenze più disparate, dalla protesta civile o alla comunicazione di base, passando per la vera e propria arte, senza tralasciare, anche, il vandalismo fine a sé stesso. Ultimamente, complice anche un panorama urbano che - va detto - sta andando a grandi passi verso stati di degrado preoccupanti, si vede sempre più spesso il fiorire di dipinti murali atti ad impreziosire facciate anonime se non proprio interi edifici abbandonati o pesantemente degradati. In questo post non mi metterò a disquisire dell'effettiva capacità di questi disegni di incidere sulla qualità urbana ma, come spesso in questo blog, quel che mi interessa è l'aspetto tristemente burocratico della faccenda: realizzare un dipinto murale, o murales che dir si voglia, comporta l'acquisizione di un titolo abilitativo?

A me piace arrivare subito al dunque e, quindi, la risposta - a mio parere - è sì: serve acquisire un idoneo titolo abilitativo per eseguire un dipinto murale. Questo perché, seguendo un principio che io ritengo condivisibile, un opera d'arte che può essere anche di grandi dimensioni va a modificare l'estetica di un fabbricato (è questo il suo scopo, alla fine) e, dunque, non vi sono molte possibilità di far passare tale opera nelle definizioni di attività edilizia libera: queste, ad oggi abbastanza ben definite dal Glossario Unico dell'Edilizia Libera, indicano che le opere di tinteggiatura delle facciate possono essere classificate libere da titoli abilitativi finché vanno a "rinnovare" gli elementi esistenti, senza apportare innovazioni radicali.

immagine di libero utilizzo da Pixabay

Questa è l'interpretazione che si può dare della faccenda, anche alla luce della sentenza Consiglio di Stato, sez. VI n°1289/2023. In questa pronuncia, dopo ampia disamina, viene non solo indicato che un dipinto murale non può appunto essere classificato di edilizia libera (e, quindi, è soggetto ad idoneo titolo abilitativo), ma vengono anche affrontati altri temi che, per i lettori di questo blog, dovrebbero suscitare interesse.

La vicenda in cui viene emessa la sentenza sopra citata ha luogo nel centro storico di Napoli, e, cercando di capire la questione barcamenandosi tra le informazioni contenute nel dispositivo, ci si dovrebbe trovare nelle "unità edilizie di base preottocentesche" definite all'art. 69 delle NTA del PRG vigente, secondo la variante del 2004. Dovremmo essere nei quartieri Spagnoli o un tessuto storicamente similare. La questione nasce attorno ad un murales effettuato in assenza di titoli, su una parete esterna di un fabbricato condominiale la quale sembra essere immediatamente prospiciente il suolo pubblico: l'amministrazione comunale contesta appunto l'abusività dell'oggetto ed emette una ordinanza di ripristino. Il condominio sul cui muro è stato eseguito il disegno presenta due CILA "in sanatoria", le quali vengono respinte entrambe dal Comune con motivazioni leggermente diverse tra le due. Il Condominio, quindi, ricorre al TAR per annullare i procedimenti comunali di inibizione, ma il giudice locale da ragione al Comune, e così farà, anche se con motivazioni leggermente differenti, anche il giudice di secondo grado di cui alla sentenza citata.

Negli atti di causa vengono citati dei documenti emessi, in quanto tirata in causa, dalla locale Soprintendenza, attraverso i quali viene specificato che l'ambito in cui è stato eseguito l'intervento non è interessato da vincoli, né della parte seconda, né della parte terza del Codice: vengono fatte salve le specifiche procedure che il PRG di Napoli prevede all'art. 58 delle norme tecniche di attuazione, ovvero un sistema di autorizzazioni in caso di specifici interventi che possono riguardare edifici di interesse archeologico anche se non puntualmente vincolati, un po' come avviene anche nel PRG di Roma anche se con modalità diverse (mi riferisco al protocollo d'intesa tra SSABAP e Roma Capitale del 2009 ed al generico obbligo di comunicare alla Soprintendenza archeologica ogni lavoro che preveda escavazioni sull'intero territorio comunale).

Entrambi i livelli di giudizio confermano la correttezza dell'operato comunale, il quale annulla le due CILA in parte per assenza di atti prodromici (che, forse, nel caso di specie effettivamente potevano non essere richiesti, come dirà la stessa Soprintendenza), in parte per diretta violazione dell'art. 69 delle norme tecniche di attuazione del PRG: in questo articolo del piano regolatore partenopeo in effetti è specificato che gli interventi ammessi sono esclusivamente quelli di conservazione degli assetti originari o opere volte al ripristino di precedenti edilizi ed estetici. Dunque il comune evoca una incompatibilità tra l'intervento del dipinto murale in generale, e la specifica disciplina di tessuto che si applica al caso di specie. Per questi motivi le CILA vengono bocciate entrambe, ed il giudice amministrativo in entrambi i gradi conferma questa visione, condivisibile o meno che sia (la Soprintendenza, sempre nei suoi atti citati, ad un certo punto sembra affermare che per lei l'opera sarebbe pure assentibile, ma sostanzialmente non si pronuncia perché non ha competenza per farlo). I ricorrenti hanno provato ad argomentare riguardo alla assentibilità di un dipinto murale come opera non in contrasto con l'art. 69, ma i giudici non si sono fatti persuadere dalle argomentazioni. Dalla vicenda rimane la sensazione dell'esistenza di un campo vuoto all'interno del quale vi sarebbe da argomentare riguardo a dove finisce il ripristino e la valorizzazione e dove comincia l'intervento innovativo che non sarebbe ammesso dal piano regolatore (perché non è comunque sensato che siano vietate a prescindere le innovazioni): qui si percepisce più che altro la mancanza di una figura (pubblica) atta a valutare la qualità e, quindi, la compatibilità dell'intervento con il contesto (che potrebbe essere la stessa Soprintendenza se il PRG lo volesse, o altro ente all'uopo istituito).

La disamina potrebbe finire qui, concludendo semplicemente che la CILA poteva essere lo strumento idoneo per autorizzare questo murales ma che nel caso di specie l'intervento era comunque in contrasto con il PRG locale, o almeno così è stato ritenuto. Ma tra le righe della sentenza emerge un tema di non secondaria importanza, evocato dal primo giudice ma tralasciato (o, tacitamente negato) dal secondo: il tema è quello del se le strade o piazze pubbliche, e le relative facciate che vi si affacciano o che vi prospettano, debbano essere considerate vincolate ai sensi della parte II del Codice per il sol fatto di essere beni pubblici con più di settanta anni di età (ed anche perché sarebbero espressamente elencate all'art. 10 comma 4 lett. g) del Codice). Il TAR evoca che ai sensi di tale norma, il contesto sarebbe comunque vincolato e, dunque, vi è comunque mancanza dell'autorizzazione; il Consiglio di Stato, invece, valorizza le espressioni della Soprintendenza nel senso di indicare la non assoggettabilità a vincolo (in effetti, la indicazione del TAR sarebbe stata contrapposta alle affermazioni della Soprintendenza) e quindi tralascia di scendere nel dettaglio. Peccato, perché poteva essere l'occasione per dire una parola definitiva su questa questione che, sebbene di striscio, aleggia di fatto su tutti gli interventi eseguiti sulle facciate degli edifici che prospettano su strade, piazze e vie realizzate più di settanta anni prima.

Dato che chi mi legge è spesso anche lui di Roma, proviamo a traslare questa vicenda nel PRG romano e vediamo se si potrebbe incappare nello stesso problema. Da noi le regole di tessuto declinano le tipologie di intervento intese come definizioni generali, senza (quasi) mai entrare troppo nel dettaglio di cosa è assentito e cosa no. in generale, gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria e risanamento conservativo sono sempre ammessi e potendosi attribuire il dipinto murale in una delle due ultime definizioni citate, potrebbe sembrare che detto intervento sia sempre ammesso. Tuttavia, così non è, in quanto Roma si è dotata di due sistemi di valutazione dei progetti di intervento di rilevanza esterna in talune zone: uno è il già citato protocollo d'intesa del 2009, il quale stabilisce che la Soprintendenza locale (SSABAP Roma) debba pronunciarsi su ogni opera che ha una qualche incidenza sull'estetica esterna degli edifici, ed una modifica cromatica certamente lo è. Il protocollo ha validità all'interno della cerchia aureliana, dunque tutto il centro storico inteso storicamente come tale. Al di fuori di tale ambito, si può ricadere nelle aree individuate nella Carta per la Qualità, dove pure vi è un sistema di controllo preventivo della qualità dei progetti, da sottoporre ad un ufficio apposito, la Sovrintendenza Capitolina: in questo strumento non si parla di tessuti ma proprio di zone o edifici "attenzionati" e la perimetrazione può ricadere indistintamente su qualunque tessuto urbano ritenuto meritevole di una preventiva validazione. In questi ambiti a parere del sottoscritto, ed alla luce delle considerazioni ispirate dalla sentenza di cui sopra, il murales dovrebbe essere preventivamente oggetto di valutazione da parte di questi organi, e poi autorizzato con CILA. Si ritiene non vi siano i presupposti per dire che con un dipinto murale si possa sconfinare in ristrutturazione edilizia, ma chissà?

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