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domenica 10 novembre 2024

articolo 26 e articolo 48: cosa sono?

Talvolta è possibile imbattersi in dei documenti della propria casa (o locale commerciale), sicuramente datati, da cui si capisce che hanno a che fare con interventi di ristrutturazione eseguiti nel passato, ma che sembrano scritti in modo eccessivamente semplicistico rispetto alle pratiche edilizie "contemporanee": se avete avuto questa sensazione osservando dei documenti datati trovati nel cassetto, è probabile che vi siate imbattuti in una procedura edilizia depositata ai sensi degli articoli 26 o 48 della L. 47/1985


immagine royalty-free da Pixabay, modificata dall'autore

per parlare di questi documenti, è necessario fare un breve passo indietro nella storia legislativa del nostro paese: la L. 47/1985 è famosa principalmente per aver istituito per la prima volta nella storia d'Italia il condono edilizio, ma è in verità una norma profondamente innovativa e studiata con intelligenza che ha introdotto una serie di meccanismi autorizzativi e concetti che utilizziamo ancora oggi (come ad esempio l'accertamento di conformità ordinario dei vigenti articoli 36 e 36-bis DPR 380/01) o focalizzato meglio alcune questioni urbanistiche che oggi sono assolutamente fondamentali (come ad esempio i mutamenti di destinazione d'uso). 

Tra le varie innovazioni di rilievo, venne introdotta per la prima volta la possibilità di autorizzare in modo estremamente semplificato l'esecuzione di opere edilizie considerate "minori", questo perché prima della legge del 1985 la normativa ancora prevedeva un unico titolo edilizio per autorizzare qualunque tipo di opera, che era la licenza edilizia. A quei tempi difatti occorreva chiedere il rilascio di una licenza sia per realizzare un fabbricato del tutto nuovo, sia per spostare un tramezzo dentro casa: si era arrivati a comprendere la sproporzione della cosa sia come impegno economico per il privato (presentare una licenza edilizia non era un affare semplice per un tecnico) sia come sforzo per la pubblica amministrazione (ogni richiesta di licenza va istruita, verificata e rilasciata), con la conseguenza che chiunque volesse fare piccoli lavori dentro casa li faceva abusivamente nella stragrande maggioranza dei casi.

Il legislatore dunque inserisce proprio nella L. 47/85 una novità assoluta, ovvero una procedura autorizzativa che è una semplice comunicazione, senza necessità di una istruttoria amministrativa da parte del comune e senza un eccessivo carico di lavoro per il professionista incaricato: non era obbligatorio neanche presentare una planimetria, ma era sufficiente una descrizione dei lavori che si intendevano eseguire dentro casa. Per certi versi, questa procedura meramente "comunicativa" ha degli elementi in comune con l'attuale CILA: entrambe sono delle semplici comunicazioni ed entrambe devono solo essere conosciute dalla pubblica amministrazione, ma anche in entrambi i casi il comune mantiene il potere di inibire le opere previste laddove in contrasto con le regole edilizie o laddove la comunicazione abbia ad oggetto opere che escono dalla sfera di competenza della procedura. Oggi la CILA, a differenza della originaria procedura della L. 47/85, deve contenere molti più elementi (una relazione tecnica ed un elaborato grafico firmati da un tecnico, ad esempio) dunque ad oggi appaiono procedure molto differenti: tuttavia, come visto i caratteri comuni non mancano e non è escluso che il legislatore del 2010 che ha introdotto la CILA nel panorama normativo non si sia ispirato proprio alle regole introdotte nel 1985.

Naturalmente, essendo una procedura "semplice" rispetto alla licenza edilizia, è giusto che essa sia confinata entro specifici ambiti, superati i quali si ricadeva nella sfera di competenza della licenza. Per la prima volta, nella normativa italiana esisteva una differenziazione procedurale per opere edilizie di impatto diverso: questo concetto si è evoluto nel tempo tanto che oggi abbiamo ben quattro procedure autorizzative differenti a seconda della consistenza degli interventi edilizi da eseguire descritte in differenti articoli del testo unico dell'edilizia: CILA art. 6-bis, SCIA art. 22, SCIA alternativa al PdC art. 23, PdC art. 10.

Ma andiamo a conoscere questa procedura di cui abbiamo finora solo tratteggiato i contorni: parliamo dell'articolo 26 della L. 47/1985 che, nella sua versione originaria (in vigore dal 22 giugno 1985 - attenzione, per tre mesi, da marzo 1985 a giugno dello stesso anno l'articolo è stato leggermente diverso nella sua formulazione), così recitava (fonte: www.normattiva.it) - le enfasi in grassetto sono aggiunte dall'autore:

Non sono soggette a concessione né ad autorizzazione le opere interne alle costruzioni che non siano in contrasto con gli strumenti urbanistici adottati o approvati e con i regolamenti edilizi vigenti, non comportino modifiche della sagoma della costruzione, dei prospetti né aumento delle superfici utili e del numero delle unità immobiliari, non modifichino la destinazione d'uso delle costruzioni e delle singole unità immobiliari, non rechino pregiudizio alla statica dell'immobile e, per quanto riguarda gli immobili compresi nelle zone indicate alla lettera A dell'articolo 2 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968, rispettino le originarie caratteristiche costruttive.
Ai fini dell'applicazione del presente articolo non è considerato aumento delle superfici utili l'eliminazione o lo spostamento di pareti interne o di parti di esse.
Nei casi di cui al comma precedente, contestualmente all'inizio dei lavori, il proprietario dell'unità immobiliare deve presentare al sindaco una relazione, a firma di un professionista abilitato alla progettazione, che asseveri le opere da compiersi e il rispetto delle norme di sicurezza e delle norme igienico-sanitarie vigenti.
Le sanzioni di cui al precedente articolo 10, ridotte di un terzo, si applicano anche nel caso di mancata presentazione della relazione di cui al precedente comma.
Le disposizioni di cui ai commi precedenti non si applicano nel caso di immobili vincolati ai sensi delle leggi 1 giugno 1939, n. 1089, e 29 giugno 1939, n. 1497, e successive modificazioni ed integrazioni.
Gli spazi di cui all'articolo 18 della legge 6 agosto 1967, n. 765, costituiscono pertinenze delle costruzioni, ai sensi e per gli effetti degli articoli 817, 818 e 819 del codice civile.

L'articolo 26 è molto chiaro nella sua formulazione, che delinea l'esatto campo di validità. come detto, opere che non rientravano nel suo campo di validità non potevano essere autorizzate con questa procedura ed eventuali istanze depositate devono ritenersi inefficaci perché in contrasto con la legge. L'articolo comunque è stato necessariamente interpretato nel corso del tempo per cui alcune sue sfumature sono poi state oggetto di perfezionamento nella prassi: ad ogni modo, per poter ricadere nell'ambito applicativo dell'art. 26 L. 47/85 le opere dovevano rispettare tassativamente le seguenti caratteristiche:

  • devono essere "opere interne", con ciò escludendo tutto ciò che è eseguito all'esterno della costruzione ma anche sulle parti esterne intese quali facciate, coperture e cortili: si deve trattare di interventi eseguiti all'interno dell'involucro costruito senza interferenza con gli esterni. Non devono quindi prevedere modifiche né alla sagoma né ai prospetti della costruzione;
  • deve trattarsi di opere non in contrasto con gli strumenti urbanistici né con il regolamento edilizio vigente. ciò significa che l'intervento deve seguire le regole tecniche imposte da questi strumenti. Principalmente, le regole più direttamente interferenti con la ristrutturazione interna sono quelle del regolamento edilizio il quale impone ad esempio la superficie minima delle singole stanze nonché le destinazioni d'uso degli ambienti ed i rapporti aeroilluminanti. Dunque un articolo 26 per essere legittimo deve proporre una distribuzione interna rispettosa delle regole tecniche;
  • non deve prevedere aumento delle superfici utili: con questo concetto l'art. 26 fa sicuramente riferimento alle superfici utili della L. 10/1977, dunque si tratta della superficie calpestabile interna al netto degli sguinci, delle porte, dei pilastri, etc. Dunque ad esempio un intervento che prevedesse di ampliare l'unità immobiliare a discapito del pianerottolo condominiale (opera interna, senza modifica di sagoma e prospetti) non poteva essere autorizzata con tale procedura perché prevedeva aumento delle superfici utili. La norma, in modo assai saggio, specifica che non può considerarsi aumento delle superfici utili l'opera che prevede solamente una diversa distribuzione interna: la specifica non è affatto inutile, in quanto il calcolo della superficie utile calpestabile non considera l'impronta a terra dei tramezzi: dunque un intervento che preveda la sola rimozione di un tramezzo per creare un unico ambiente (ad esempio, unificare la cucina con il soggiorno) tecnicamente comporta un aumento della superficie utile perché l'impronta a terra del tramezzo diventa superficie "utile" quando prima non lo era;
  • non deve prevedere aumento del numero delle unità immobiliari: con ciò si deve intendere l'operazione di frazionamento, che all'epoca era classificata, peraltro, opera di ristrutturazione edilizia. Se il frazionamento immobiliare è quindi escluso, parimenti non si può dire per la fusione: fondere due unità immobiliari confinanti non rappresenta un "aumento" del numero delle unità immobiliari ma semmai una "riduzione", dunque tale operazione si ritiene potesse essere autorizzata con un art. 26. Altre opere che potevano essere autorizzate a parere di chi scrive, il trasferimento di superficie tra due unità confinanti (quando ad esempio tra due appartamenti confinanti ci si "scambia" un vano);
  • l'intervento interno altresì non deve recare preguidizio alla statica dell'immobile, cioè non deve prevedere interventi che compromettano il funzionamento strutturale dell'edificio. Attenzione: non significa che non possono essere autorizzati interventi di modifica strutturale, ma solo che tali opere devono essere regolarmente progettate e, se previsto dalle regole all'epoca in vigore, anche soggette al deposito al Genio Civile. dunque l'art. 26 poteva contemplare opere strutturali, le quali, però, se si operava in zona territoriale di tipo A dovevano in qualche modo essere "modeste" in quanto in tal caso l'intervento è ammesso solo nel "rispetto delle caratteristiche costruttive" dunque con ciò si potrebbe intendere che non era ammesso un intervento strutturale tale da sostituire, ad esempio, un interno muro portante con un telaio di acciaio. Spesso negli articoli 26 si trovano autorizzate opere modeste sui muri portanti, come apertura o spostamento di vani porta: in tali casi, nelle zone che all'epoca non erano ancora sismiche, l'operazione in effetti poteva non comportare nessun adempimento ulteriore dal punto di vista del Genio Civile, quindi l'eventuale assenza di questa procedura può non compromettere la legittimità dell'intervento;
  • Le opere rappresentate nell'art. 26 non possono autorizzare mutamenti di destinazione d'uso;
  • L'articolo 26 per espressa previsione di norma non può trovare applicazione negli immobili soggetti a vincolo diretto secondo le disposizioni dell'allora vigente L. 1089/1939. attenzione, si tratta dei soli vincoli monumentali diretti o "decretati", attualmente gestiti dalla parte II del Codice dei Beni Culturali, e non anche dei vincoli paesaggistici che all'epoca erano gestiti da un dispositivo di legge differente ovvero la L. 1497/1939. Dunque negli immobili soggetti a vincolo anche le semplici opere interne all'epoca erano ancora soggette all'obbligo di ottenere la licenza edilizia, sempre dopo aver acquisito l'autorizzazione della Soprintendenza. Eventuali articoli 26 presentati per immobili vincolati devono considerarsi privi di qualunque efficacia perché presentati in contrasto con la legge;
  • L'articolo 26 prevede obbligatoriamente il fatto che contestualmente all'inizio dei lavori, o comunque prima del loro inizio, venga depositata in comune una relazione tecnica a firma di un professionista abilitato, il cui scopo è quello di asseverare il rispetto di tutte le condizioni fin qui descritte. Non è richiesto altro se non la semplice relazione, dunque non è previsto obbligatoriamente il deposito anche di un elaborato grafico, anche se questo può essere presente e nel caso è sempre gradito per comprendere meglio la natura delle opere. In alcuni comuni poteva essere diventato prassi richiedere il deposito anche di un progetto assieme alla relazione. Un articolo 26 presentato con una descrizione lavori a sola firma dell'interessato agli interventi, se egli stesso non è un tecnico, è priva di efficacia, così come parimenti è privo di efficacia un art. 26 composto da una relazione che attesta falsamente il rispetto dei requisiti di legge.

Come si vede, la procedura comunicativa della L. 47/85 era abbastanza stringente, nel senso che solo determinate opere potevano in effetti ricadere nella sua efficacia. tuttavia, era parimenti un campo abbastanza ampio per ricomprendervi moltissime fattispecie di opere che, tipicamente, per l'epoca rappresentavano gli interventi da eseguirsi negli appartamenti per il loro ammodernamento. L'art. 26 non prevedeva limitazioni specifiche in funzione della destinazione d'uso degli immobili, dunque era efficace anche per locali commerciali o industriali.

Attenzione al fatto che l'art. 26 così come sopra riportato è rimasto in vigore fino al 30 giugno 2003. Esso è stato abrogato dall'entrata in vigore del DPR 380/2001 che è appunto avvenuta circa due anni dopo l'originaria stesura del testo unico dell'edilizia, dunque si deve considerare che le sue disposizioni siano rimaste valide appunto fino alla fine del giugno 2003 e le istanze protocollate entro tale data devono considerarsi del tutto valide e legittime. Esso quindi è convissuto in parallelo con le altre procedure autorizzative che nel frattempo erano state introdotte nel panorama normativo italiano ed in particolare ci si riferisce alla Denuncia di Inizio Attività i cui primi albori sono apparsi nel 1994 e che verrà poi inglobata e resa "strutturale" dall'art. 22 del DPR 380/01 (oggi la DIA non esiste più ed a sua volta è stata "trasformata" nella SCIA). Vi è dunque stato un periodo anche abbastanza lungo in cui articolo 26 e DIA potevano essere alternativamente scelte come procedure per autorizzare opere esclusivamente interne. Con l'entrata in vigore del testo unico dell'edilizia quindi tramonta per sempre l'epoca dell'art. 26 che è durata come visto quasi vent'anni, mentre le competenze di questo articolo vengono di fatto assorbite dalla DIA ai sensi dell'art. 22 DPR 380/01.

Come abbiamo visto l'art. 26 non richiedeva obbligatoriamente il deposito anche di un elaborato grafico, e ciò comporta il fatto che le relative opere edilizie autorizzate sono solo "descritte" e non anche disegnate. ciò può comportare da un lato dei vantaggi, dall'altra dei dubbi interpretativi circa le opere in effetti eseguite: non è un caso che i tecnici più attenti si premuravano comunque di depositare anche dei disegni oltre alla sola relazione. Ad ogni modo, quando ci troviamo di fronte ad un art. 26 composto dalla sola relazione tecnica, possiamo valutare i seguenti aspetti:

  • può essere "elevata" a rango di elemento utile per rappresentare lo stato legittimo anche la planimetria catastale, purché sia stata depositata in un periodo "compatibile" con le opere edilizie autorizzate con l'art. 26 (ad esempio un accatastamento eseguito non più tardi di sei/otto mesi dal protocollo dell'istanza), e purché essa rappresenti opere aderenti alla descrizione contenuta nella relazione. in questo caso si ritiene necessario acquisire anche la planimetria catastale storicamente precedente a quella depositata a seguito delle opere autorizzate con l'art. 26. Attenzione però al fatto che fino ai primi anni duemila non era effettivamente obbligatorio aggiornare la planimetria catastale se non variava la rendita, pur in presenza di una diversa distribuzione spazi interni;
  • le opere descritte nella relazione dell'art. 26 devono essere lette ed applicate con grande precisione perché rappresentano l'unico strumento che le illustra. Tutto ciò che non è espressamente riportato nella relazione tecnica non può essere "implicitamente" ricompreso nell'istanza. Ad esempio, se nella relazione vi è scritto che l'opera consiste solo nella rimozione di un tramezzo, ma nella realtà si sono riscontrate anche altre opere eseguite, allora queste ultime devono ritenersi prive di titolo.

Nella città di Roma il comune si organizzò in modo tale che gli articoli 26 venissero depositati presso le singole circoscrizioni (oggi municipi) invece che presso l'ufficio della XV Ripartizione (oggi dipartimento Programmazione ed Attuazione Urbanistica) che allora si occupava del rilascio delle licenze edilizie. Tuttavia potrebbe capitare che quale articolo 26 presentato nell'immediatezza della pubblicazione della legge possa essere stato inviato alla XV Ripartizione o direttamente al gabinetto del sindaco: ciò a parere di chi scrive non inficia l'efficacia della comunicazione.

L'articolo 26 ha avuto una sua procedura di sanatoria, un po' come è oggi la CILA tardiva: tale specifica disciplina era prevista dall'art. 48 contenuto sempre nella L. 47/1985.

Tuttavia, a ben vedere l'art. 26 conteneva anche una seconda modalità di sanatoria, più propriamente simile alla CILA tardiva di oggi: non appare difatti vietato presentare un art. 26 "tardivo" ma, in base al tenore della norma, esso doveva generare il versamento di una sanzione pari ad un terzo di quella prevista dall'art. 10 sempre della L. 47/85. L'articolo 48 così recitava:

Per le opere interne alle costruzioni, definite dall'articolo 26, realizzate prima dell'entrata in vigore della presente legge o in corso di realizzazione alla medesima data, il proprietario della costruzione o dell'unità immobiliare deve inviare al sindaco, mediante raccomandata con avviso di ricevimento, una relazione descrittiva delle opere realizzate, entro il termine del 31 dicembre 1985.

Nella sua semplicità, l'art. 48 indica che laddove fossero state nel passato eseguite opere che ricadono nella definizione dell'art. 26 e che siano state eseguite senza licenza, esse potevano essere sanate inviando la relazione tecnica descrittiva delle opere via posta raccomandata al "sindaco" del comune, senza pagare sanzioni. il termine del 31 dicembre 1985 fu prorogato al 30 giugno 1986 dalla L. 780/1985. Rimangono validi tutti i presupposti ed i confini di applicabilità della norma dell'art. 26. Il problema dell'invio via posta raccomandata, purtroppo, è che non sempre si possiede un protocollo di riscontro dell'invio, ma solo l'avviso di ricevimento (che generalmente tornava indietro con il timbro del protocollo, ma non sempre): a distanza di tanti anni suggerisco di valutare con attenzione se prendere per buone queste procedure laddove non si abbia a disposizione un protocollo di riscontro.

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